lunedì 8 gennaio 2018

Lingua inglese -e poteri anglofoni- sempre più invadenti...


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Dopo la lettura dell’articolo  che segue  confermo che ero al corrente di questa tendenza,  ora è richiesto agli insegnanti delle scuole pubbliche italiane, di qualsiasi materia e di qualsiasi livello, di avere una buona conoscenza dell’inglese…  La realtà è che l’Italia è un Paese occupato. Gli Stati Uniti, alla fine della seconda Guerra Mondiale, non ci hanno liberati ma ci hanno occupati, sono anni che lo penso e lo affermo ma tutti mi hanno sempre presa in giro.

Finché abbiamo avuto politici e uomini di Stato preparati, efficienti e con un minimo di palle, la cosa era meno evidente ma ormai siamo totalmente nelle mani di interessi estranei e contrari a quelli del nostro Paese, abbiamo politici fantocci, impreparati e inefficienti che vengono scelti e imposti da poteri sovrastanti dai quali prendono le istruzioni per governare l’Italia, i pochi ancora validi sono stati emarginati perché disubbidienti.

Non mi dilungo ma è chiaro che, se gli Italiani e gli Europei non prendono coscienza di questa drammatica situazione, i nostri discendenti vivranno nelle cosiddette “riserve” come gli Indiani d’America mentre gli occupanti spazieranno in tutto il Mediterraneo.

Che Dio ci salvi !
 (Anna Maria)

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Articolo menzionato: 

È possibile che nell’università italiana, e tra italiani, la lingua di lavoro diventi l’inglese? Sì, è precisamente quello che sta già accadendo, sia pure nella disattenzione generale. Ad alcuni docenti (tra i quali chi scrive) è appena capitato di ricevere da un ateneo la richiesta di esaminare e valutare un progetto di ricerca. E fin qui sarebbe tutto normale. Il punto è che l’intera procedura — le mail del rettore che formulava la richiesta, il progetto da valutare, il giudizio espresso dal valutatore — doveva svolgersi unicamente in inglese.

Più che di un caso limite, si trattava in realtà di una solerte anticipazione di una linea di condotta ministeriale che va diventando sempre più evidente. Il 27 dicembre il Miur ha pubblicato il bando Prin 2017, cioè il principale strumento per il finanziamento pubblico della ricerca di base attraverso il quale verranno assegnati 391 milioni all’intero sistema universitario. Quest’anno le modalità di partecipazione contengono una significativa novità rispetto al bando precedente: «La domanda [cioè progetto di ricerca, cv dei partecipanti, piano finanziario ecc.] è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana». Come dire, se proprio ci tenete, usate anche l’italiano, ma per noi non serve.

Siamo dunque di fronte a una tendenza, apparentemente inarrestabile, all’utilizzazione prevalente o esclusiva dell’inglese anche quando non ve ne sarebbe necessità, quasi che si considerasse l’italiano una lingua residuale. Nelle nostre scuole, del resto, si va verso un uso scriteriato dell’inglese nelle materie curricolari, una delle quali dovrà essere obbligatoriamente insegnata appunto in questa lingua (come ha ricordato sul Corriere Paolo Di Stefano il 23 dicembre). Così la lezione di fisica (speriamo che quella di italiano o di greco in inglese ci sia risparmiata) diventerà l’occasione per far pratica in inglese, invece che essere esclusivamente lo strumento per insegnare una materia che non proprio tutti gli studenti trovano facile.

Sono anni, in realtà, che l’intero sistema universitario italiano è costretto a muoversi verso un uso generalizzato dell’inglese grazie al fatto che i governi, di qualunque colore siano, assegnano maggiori risorse agli atenei in proporzione alle pubblicazioni e ai corsi di laurea in questa lingua. L’introduzione di tali corsi rappresenta un fenomeno non solo italiano. All’estero, però, spesso ci si interroga sui rischi di un uso acritico dell’inglese, cosa che in Italia evitiamo di fare (si sa, noi siamo esterofili a corrente alternata). In un recente articolo pubblicato su Times Higher Education, intitolato «Why teaching in English may not be such a good idea», Michele Gazzola, ricercatore della Humboldt Universität di Berlino, riassume così le conclusioni di una ricerca svolta tra studenti universitari austriaci con buona conoscenza dell’inglese: «Il contenuto delle lezioni era meglio compreso dagli studenti quando l’insegnamento era tradotto in tedesco da un interprete professionale, invece che ascoltato direttamente in inglese». Da parte sua la conferenza dei rettori tedeschi ha messo in guardia contro i minori risultati ottenuti con lezioni impartite agli studenti in una lingua diversa dalla loro lingua madre.

Non risulta che riflessioni del genere stiano suscitando alcun interesse da parte del nostro ceto politico, sempre più privo di qualunque idea sull’Italia, dunque particolarmente disponibile ad accogliere ogni idea di modernità che abbia una patina anglicizzante. Ma nel nostro Paese, si dirà, un uso sia pure inappropriato dell’inglese potrà almeno servire a rendere questa lingua più e meglio utilizzata di quanto non sia stato fino ad ora. È lecito qualche dubbio. Limitandomi all’università, segnalo che non è difficile trovare in rete nostri professori ordinari che si definiscono «ordinary professor», che vuol dire professore qualunque; oppure «enabled as associated professor», che semplicemente non vuol dire niente.


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