venerdì 3 febbraio 2017

Italia (cieca) - La barca naviga a vista, fra i disastri...


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Navighiamo a vista, fra i disastri. Quelli naturali e quelli politici. Neanche il tempo di fare un bilancio dei terremoti e delle nevicate dell’Italia Centrale, ed ecco arrivare la legnata della Commissione Europea: i conti non tornano, e il governo italiano dovrà trovare in tutta fretta 3 miliardi e 400 milioni di euro per evitare la temuta procedura d’infrazione.
I nostri governanti fingono di cadere dalle nuvole. Prima minimizzano («lo zero virgola»), ma poi si lasciano sfuggire che una procedura d’infrazione sarebbe un grosso guaio.
Eppure lo sapevano cani e porci che sarebbe andata a finire così. Il Vispo Tereso era arrivato alla Presidenza del Consiglio in un momento felice dal punto di vista finanziario: i tassi scendevano e, conseguentemente, il nostro esborso per il pagamento degli interessi sui debiti era contenuto; e scendeva anche il prezzo del petrolio, con evidenti benèfici effetti per la nostra bilancia dei pagamenti. E, allora, che ti combinava quel cicalone toscano? Prendeva a spendere e spandere come un Paperone: dagli “80 euro di Renzi” fino all’acquisto di un lussuosissimo aereo per i viaggi “di Stato” (che Trump se lo sogna). Poi, quando partiva la campagna per il referendum sulle sue riforme, cominciava a svuotare sistematicamente le casse dello Stato attraverso una sequela di mance, mancette e marchette che – nella sua fantasia – avrebbero dovuto servire a conquistare consensi.
Qualcuno a Bruxelles dava segni di nervosismo, ma tutto finiva lì. Anzi, il mattacchione nazionale prendeva la palla al balzo per atteggiarsi a populista antieuropeo: senza esserlo, naturalmente. Ma in campagna elettorale tutto fa brodo, specialmente se ci si rivolge ai settori più sprovveduti dell’elettorato: quelli che non capiscono che la “flessibilità” invocata contro il rigore dell’UE, non è altro che l’autorizzazione a fare più debiti, a pagare più interessi, a mettersi sempre più nelle mani della finanza usuraia.
A Bruxelles – dicevo – non si tirava troppo la corda. Non avevano interesse – lor signori – a mettere in difficoltà il ragazzo. Una vittoria del SI in Italia avrebbe fatto comodo a tutti loro, sarebbe stata una boccata d’ossigeno per mercati e mercanti, in panico dopo la Brexit, dopo la sconfitta del progetto di cancellare la Siria e, soprattutto, dopo la vittoria di Trump alle presidenziali americane.
E, invece, pure in Italia arrivava la stangata populista, anche se – per il momento – soltanto in forma di pernacchio alle riforme “che l’Europa ci chiede”.
Dunque, passata la festa e gabbato lo santo, ecco che adesso i Torquemada di Bruxelles riprendono morsi e tenaglie, e danno un altro giro alla ruota della tortura. Non si possono ammettere “scostamenti” che mettano in discussione le ferree regole della macelleria sociale che tanto piace alla Cancelliera, e i quasi 3 miliardi e mezzo devono saltare fuori. Come? Gli euroragionieri non lo dicono, ma la risposta non può essere che una: con una manovra aggiuntiva di pari importo. Dove “manovra aggiuntiva” sta a significare tasse aggiuntive, comunque camuffate.
Ma come – balbettano a Roma – abbiamo già chiesto agli italiani una barca di soldi per finanziare l’invasione dei migranti, per terremoti e disastri vari abbiamo messo in campo 25 casette (da sorteggiare fra gli aventi diritto), per la ricostruzione delle scuole ci affidiamo ai “2 euro solidali” degli utenti telefonici, non abbiamo un centesimo da stanziare per la prevenzione (in vista dei prossimi terremoti, previsti dagli esperti), abbiamo spellato vivi i contribuenti e strozzato i Comuni... e voi ci chiedete ancora miliardi? Ma a Bruxelles (e a Berlino) non intendono deflettere. Il modello Renzi è fallito. Adesso la prospettiva è quella del modello Tsipras. Due nomi, una stessa garanzia di suicidio assistito. Assistito dalla Merkel, naturalmente.
A palazzo Chigi si respira ormai un’atmosfera da Rischiatutto: se i brussellesi continueranno a non voler sentire ragioni, si tenterà l’ultima carta, quella delle elezioni anticipate. Per una manciata di mesi, così, si avrà la scusa per non rispondere ai richiami della Commissione Europea.
Dopo, si vedrà. Saranno cavoli di chi vincerà le elezioni, a patto che – con i brandelli di legge elettorale che ci ritroviamo – riesca poi a formare un governo.
Eppure, elezioni o non elezioni, la soluzione è lì, a portata di mano. In attesa della definitiva disgregazione dell’Unione Europea (sempre più vicina), basterebbe intanto abbandonare il marco tedesco travestito da moneta europea. Riprenderci la nostra sovranità monetaria. Il che non significa soltanto uscire dall’€uro e tornare alla Lira. Significa anche stampare il nostro denaro direttamente, senza farcelo prestare dai “mercati”, e nemmeno da una banca privata, pudicamente mimetizzata dietro l’etichetta di “banca centrale”.
Solo così si potrà uscire dalla spirale della miseria, solo così potremo trovare i soldi per ricostruire i paesi cancellati dai disastri naturali e per mettere in sicurezza il territorio. E non solo per questo. Ma anche per fare tutte quelle piccole cose che uno Stato “normale” dovrebbe fare con i denari suoi, senza farseli prestare dagli strozzini: chessò... la benzina per le volanti della polizia, pensioni decenti per tutti, scuole che non cadano sulla testa degli studenti, e così via dicendo.
Battere moneta dovrebbe essere prerogativa – e prerogativa esclusiva – degli Stati. Abdicare a questo diritto-dovere significa non soltanto regalare una ricchezza immensa a pochi speculatori, ma anche sottrarre questa ricchezza agli Stati stessi. I quali Stati – defraudati e con l’acqua alla gola – dovranno necessariamente spremere sempre di più i contribuenti e ridurre sempre di più la spesa pubblica, fino a privarsi dei mezzi per fronteggiare le calamità naturali.

Se non si interrompe questo circolo vizioso, sarà sempre peggio. Non come adesso – badate bene – ma peggio, e poi peggio ancòra. Unica salvezza: riprenderci la nostra sovranità. E i nostri soldi.

Michele Rallo - ralmiche@gmail.com

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