giovedì 4 agosto 2016

"C'era una volta la Libia..." - Zibaldone di rievocazioni storiche e di pezzi d'attualità a cura di Michele Rallo


PREMESSA:  TRA STORIA E ATTUALITÀ

Riprendono i bombardamenti sulla Libia  con lo scopo dichiarato di evitare che l’ISIS crei un altro simil-Stato a poche braccia di mare dalle nostre coste.

Tuttavia, i motivi reali dell’operazione sono meno nobili: si tratta di un altro capitolo della sporca manovra – targata Hilary Clinton – iniziata dagli USA nel 2011 per mettere le mani sulle immense riserve di petrolio e sulle grandi ricchezze finanziarie della Libia.

Altro movente oscuro, ma non troppo: cancellare ogni influenza italiana (ENI) in quel Paese, lasciando gli spiccioli ai soci in affari degli Stati Uniti, e cioè all’Inghilterra (British Petroleum) e alla Francia (Total).

Per tentare di ricostruire alcuni aspetti della vicenda, ho raccolto alcuni miei vecchi articoli di soggetto libico e li ho ordinati secondo un criterio logico-cronologico: dalle premesse (la nostra Guerra di Libia del lontano 1911) agli eventi che hanno preceduto la decisione americana di tornare a bombardare. In nome della democrazia, beninteso.

M.R.




SOMMARIO
  • Premessa :
Tra storia e attualità 05

  • Quando la nostra “quarta sponda” si chiamava Tunisia
(“La Risacca”, giugno 2011) 07

  • Tripoli bel suol d’amore”:
come si giunse alla Guerra di Libia nel 1911
(“La Risacca”, luglio 2011) 13
  • Ma allora era una cosa seria …
Cento anni fa: l’Italia alla conquista della Libia
(“La Risacca”, settembre 2011) 17
  • Nel 1912 la conquista della Libia e del Dodecanneso:
L’Italia diventa una “grande potenza” mediterranea
(“La Risacca”, ottobre 2011) 21
  • Oggi: guerra contro la Libia o guerra contro l’Italia?
(“La Risacca”, aprile 2011) 27
  • L’Italia, la Libia e gli equilibri mediterranei
(“La Risacca”, maggio 2011) 31
  • La strage di Ustica
(“La Risacca”, febbraio 2013) 37
  • Petrolio e democrazia: ovvero, come nasce una guerra
(“La Risacca”, giugno 2011) 43
  • L’Italia è in guerra …
e a difendere la Sicilia è rimasto solo Bossi
(“Trapani OK”, 27 aprile 2011) 47
  • Ma quanto ci costa la guerra in Libia?
(“Trapani OK”, 24 giugno 2011) 51
  • Adesso tocca alla Siria:
come si fabbrica una rivolta “spontanea”
(“La Risacca”, giugno 2011) 55
  • Anche se non ce ne siamo accorti …
Qualcuno prepara la terza guerra mondiale
(“La Risacca”, luglio 2011) 59
  • Siria e Iraq:
la crociata contro gli arabi laici e sciiti
(“Social”, 20 giugno 2014) 65
  • Il Califfato alle porte:
e qualcuno ha visto la NATO?
(“Social”, 20 febbraio 2015) 71
  • Guerre e denari:
tutto pronto per la prossima campagna di Libia
(“Social”, 12 febbraio 2016) 75
  • Libia: qual’è l’interesse italiano?
Restarne fuori
(“Social”, 11 marzo 2016) 79



Rievocazioni
di Michele Rallo


QUANDO LA NOSTRA

“QUARTA SPONDA”

SI CHIAMAVA TUNISIA


[da “La Risacca”, giugno 2011]


PRIMA ANCORA CHE SULLA LIBIA, L’INTERESSE DELLA POLITICA MEDITERRANEA DELL’ITALIA AVEVA PUNTATO LE SUE CARTE SULLA TUNISIA. MA ANCHE ALLORA, NEL 1881, UNA FRANCIA GELOSA E DISPETTOSA SI PREOCCUPÒ DI OSTACOLARE I DISEGNI ITALIANI.


La recente pubblicazione di un pregevole lavoro di Enzo Tartamella (“Emigranti anomali. Italiani in Tunisia tra Otto e Novecento”, Maroda editori) ha, tra gli altri meriti, quello di riportare alla ribalta due temi non secondari nella storia della nostra diplomazia: quello, appunto, della emigrazione italiana in Tunisia, e quello – strettamente connesso – del ruolo della Tunisia nel contesto della politica estera italiana, fin dal marzo di 150 anni fa. L’occasione è opportuna, anche, per ripercorrere le tappe principali di quel rapporto particolarissimo fra la nazione italiana e la sua “quarta sponda” nordafricana; rapporto ritornato d’attualità oggi, quando l’Italia è stata costretta a partecipare alla sciagurata guerra contro la Libia.

Ufficialmente il nostro interesse per la Libia risale ad un secolo fa, quando il Regno d’Italia mosse guerra all’Impero Ottomano per impadronirsi di Tripolitania e Cirenaica. In realtà, l’Italia si sarebbe forse accontentata della piccola Tunisia, che aveva iniziato a colonizzare pacificamente fin dall’indomani del raggiungimento dell’unità nazionale. La locale comunità italiana (con una componente siciliana del 75%) giungerà a sfiorare le 100.000 unità, assolvendo ad un ruolo importantissimo di promozione e di supporto alla economia locale.

Questo avvìo di colonizzazione della Tunisia era sostenuto e favorito dai primi governi dell’Italia unita, impegnati ad abbozzare una linea diplomatica che non poteva più essere quella del piccolo Piemonte sabaudo, ma che doveva necessariamente avere un respiro mediterraneo. E il Mediterraneo, al tempo, era diviso tra la signorìa dell’Inghilterra ad est e quella della Francia ad ovest. I domìni britannico e francese erano ovviamente comprensivi di possedimenti e protettorati sul versante africano: l’Inghilterra esercitava un parziale domìnio sull’Egitto, perfezionato nel 1875 con il controllo del canale di Suez e nel 1882 con la definitiva occupazione militare; e la Francia deteneva l’Algeria e il Marocco. In mezzo v’erano tre regioni di media grandezza: la Cirenaica (al confine con l’Egitto), la Tripolitania (in mezzo) e la Tunisia (sul versante algerino). Si trattava di tre province dell’Impero Ottomano, una delle quali – la Tunisia – era però sostanzialmente indipendente, affidata alle cure di un Bey che agiva di fatto come un sovrano. La Tunisia, peraltro, era una meta tradizionale dell’emigrazione italiana: dagli antichi flussi di origine soprattutto ligure, a quelli più recenti di provenienza siciliana.

Orbene, la nascente politica mediterranea del Regno d’Italia non aveva che una prospettiva: creare una pur modesta area di predominio italiano al centro del “mare di mezzo”, in modo da interporsi fra l’est britannico e l’ovest francese, oltre che per impedire all’Inghilterra (che già controllava, con Gibilterra, l’accesso al Mediterraneo) potesse trasformare definitivamente l’ex Mare Nostrum in un Great British Lake, un Grande Lago Britannico. Ovviamente questa nostra “area” avrebbe potuto avere rilevanza (economica e militare) solo se si fosse estesa dalle coste della Sicilia a quelle del Nordafrica, comprendendo dunque un possedimento sulla riva sud. E questo possedimento (o anche soltanto un protettorato) non avrebbe potuto essere che la Tunisia. Ecco perché il governo di Roma stipulò nel 1868 un trattato di collaborazione con il Bey di Tunisi, trattato che diede il via ad un nuovo consistente flusso migratorio siciliano verso la Tunisia: bene accetto al governo ed alla popolazione del piccolo paese arabo, perché tale flusso era pacifico, laborioso, non predatorio, apportatore di benessere, prezioso per le prospettive di sviluppo di quel territorio.

La politica italiana del tempo, infatti, rifuggiva dalle conquiste militari per acquisire sbocchi coloniali; politica che, al contrario, era praticata su larga scala dalle “grandi potenze”, in primis da Inghilterra e Francia. Quest’ultima, in particolare, non si faceva scrupolo di compiere una vera e propria rapina a mano armata ai danni dell’Italia. L’11 maggio 1881, così, le truppe francesi varcavano il confine algerino ed occupavano militarmente la Tunisia. Era quello che sarebbe passato alla storia come “lo schiaffo di Tunisi”, a significare l’affronto mosso al Regno d’Italia da una Francia che pure si proclamava nostra “amica”. L’umiliazione era tale che il Presidente del Consiglio del tempo, Benedetto Cairoli, rassegnava le dimissioni, travolto dalle critiche che sommergevano l’intera politica diplomatica del suo e dei precedenti governi.

Quanto all’Inghilterra, l’anno seguente avrebbe invaso l’Egitto, sostituendosi – di fatto – al dominio dell’Impero Ottomano (che ufficialmente permarrà fino al 1914).

Ritornando alla Francia, comunque, questa si installava saldamente in Tunisia, sostituendosi con arroganza alla pacifica, operosa presenza dell’Italia. La comunità italiana, tuttavia, era talmente numerosa e talmente radicata nel paese, che le nuove autorità non riuscivano a soppiantarla facendo affluire corpose ondate di “coloni” dall’Algeria. Ancora cinquant’anni dopo lo “schiaffo” – negli anni ’30 del XX secolo – in Tunisia c’erano assai più italiani che francesi. E ciò malgrado una rozza politica di assimilazione che non otterrà che scarsissimi risultati.

La mossa francese vanificava, non di meno, la nascente politica mediterranea del Regno d’Italia. Il vagheggiato asse verticale Roma-Tunisi non era più nel novero delle cose possibili e, conseguentemente, il Mare Nostrum tornava ad essere una grande palestra per i traffici delle flotte di Londra e di Parigi. Il primo tentativo dell’Italia di assurgere al rango di “grande potenza” naufragava sul nascere, travolto dall’arroganza, dalla gelosia, dalla prepotenza della Francia. Una Francia che rigettava (allora come oggi) ogni ipotesi di solidarietà euro-latina, preferendo – come dirà più tardi Mussolini – il ruolo di “cameriera dell’Inghilterra”.

In ogni caso, però, la politica mediterranea dell’Italia non mutava indirizzo. Sfumata l’occasione della Tunisia, si profilava un nuovo obiettivo: la Libia. Ma di questo parleremo la prossima volta.



Rievocazioni

di Michele Rallo


“TRIPOLI BEL SUOL D’AMORE”:

COME SI GIUNSE ALLA

GUERRA DI LIBIA NEL 1911


[da “La Risacca”, luglio 2011]


DOPO L’OCCUPAZIONE FRANCESE DELLA TUNISIA, GLI INTERESSI ITALIANI SI SPOSTANO SULLA TRIPOLITANIA E SULLA CIRENAICA. IL BRACCIO DI FERRO CON LA TURCHIA. LA POSIZIONE DELLE “GRANDI POTENZE” IN VISTA DELLA NUOVA GUERRA. LA SCELTA BELLICISTA DELL’OPINIONE PUBBLICA ITALIANA.


Abbiamo visto come il tentativo italiano di impadronirsi pacificamente della Tunisia fosse stato bloccato dai francesi, che avevano invaso il paese nel 1881. La politica estera del giovanissimo Regno d’Italia si era così trovata al punto di partenza, senza una sponda africana che le potesse consentire di inserire un cuneo fra il Mediterraneo Occidentale dominato dalla Francia ed il Mediterraneo Orientale egemonizzato dall’Inghilterra. La situazione era anzi peggiorata, dal momento che la Sicilia era adesso minacciata non soltanto dal vecchio “pugnale” inglese di Malta, ma anche dalla nuova “pistola” francese di Tunisi; per tacere, naturalmente, della Corsica.

A quel punto, le uniche regioni nordafricane che non ricadessero nell’orbita anglo-francese erano la Tripolitania e la Cirenaica, ultimi bastioni dell’Impero Ottomano in Nordafrica. L’Egitto, infatti, pur se ufficialmente soggetto alla Sublime Porta, dal 1882 era occupato “provvisoriamente” dall’Inghilterra.

Fin dall’indomani dello “schiaffo di Tunisi”, l’Italia aveva iniziato a guardare alla Tripolitania (ed alla Cirenaica) con un interesse crescente, supportato anche – fin dal 1885 – dai primi progetti di carattere militare. Tuttavia, il nostro interesse verso l’area libica non aveva assunto un carattere apertamente bellicoso fino al 1908, quando – in conseguenza del terremoto politico seguìto alla “rivoluzione dei Giovani Turchi” – l’Impero Ottomano aveva iniziato a frapporre ostacoli crescenti all’attivismo commerciale ed imprenditoriale dell’Italia in Libia.

Dal 1908 al 1911 la tensione era andata via via aumentando, mentre il quadro diplomatico internazionale evolveva rapidamente, in previsione di un conflitto ritenuto ormai inevitabile. E il quadro diplomatico non avrebbe potuto essere più confuso. L’Italia faceva allora parte della Triplice Alleanza, insieme ad Austria e Germania. La Turchia era invece legata all’Inghilterra, che con la Francia e la Russia costituiva la Triplice Intesa. Senonché, l’Inghilterra aveva da poco iniziato a “mollare” l’Impero Ottomano, sostituendolo pian piano con il più modesto Regno di Grecia nel ruolo di propria principale pedina nel Mediterraneo Orientale: tutto ciò – comunque – in maniera molto graduale, senza venir meno a quel “dogma della intangibilità dell’Impero Ottomano” che aveva fin’allora condannato i paesi balcanici alla dominazione turca. Frutto di questa prudente diplomazia (che poi coincideva con la classica politica del “doppio binario”) era una sorta di via-libera dato a Roma per procedere all’occupazione di Tripolitania e Cirenaica. La stessa cosa faceva la Francia, che aveva peraltro l’esigenza di tenere buona l’Italia in vista di un possibile confronto con la Spagna in Marocco.

Per contro, i soci dell’Italia nella Triplice Alleanza – Austria e Germania – prendevano le parti della Turchia: non per ostilità verso il governo di Roma, ma per contrastare la politica della Russia, la più antiturca delle “grandi potenze”, che in Bulgaria e in Serbia (ma anche nella Grecia filobritannica) andava tessendo la tela di una insurrezione generale balcanica che avrebbe dovuto espellere l’Impero Ottomano dall’Europa. La Germania, inoltre, corteggiava i Giovani Turchi (da poco al potere a Costantinopoli) e si candidava a succedere all’Inghilterra nel ruolo di grande protettrice dell’Impero Ottomano.

Come si può vedere, alla vigilia della guerra il quadro diplomatico (che peraltro muterà alla conclusione del conflitto) era estremamente complesso: gli interessi dell’Italia si trovavano in oggettivo contrasto con quelli dei suoi alleati e, sia pur solo parzialmente, in linea con quelli dei rivali della Triplice Intesa. Scenario – questo – che pochi anni appresso si ripeterà esattamente allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Comunque, se questo era il complicato contesto internazionale, assai più semplice si presentava la scena politica interna all’Italia. Tutti volevano la guerra alla Turchia: la volevano le forze politiche (con l’eccezione del giovane Mussolini e di una parte del partito socialista), la volevano le forze economiche (capitanate dal Banco di Roma), la volevano i cattolici e i laici, la volevano gli industriali e la volevano i ceti popolari. Ma erano soprattutto i contadini del meridione a volere una guerra che avrebbe creato un sicuro sbocco coloniale a poche braccia di mare da casa, sottraendoli allo spettro della disoccupazione e di una dura emigrazione nelle lontane Americhe. Nel primo decennio del secolo – si tenga presente – erano emigrati qualcosa come 6 milioni di italiani, quasi il 20% di una popolazione che allora oscillava attorno ai 33 milioni.

Ecco perché la guerra alla Turchia – anzi, la guerra per la Libia – era una guerra così popolare, una guerra che tutti volevano. A Torino l’8 settembre 1911, in un clima di grande esaltazione patriottica, la famosa cantante Gea della Garisenda si presentava sul palcoscenico del Teatro Balbo, vestita soltanto di una bandiera tricolore, ed intonava una canzone che nel giro di pochi giorni sarebbe risuonata in tutti i teatri, ma anche in tutte le strade d’Italia. Il suo ritornello suonava così: «Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon! Sventoli il tricolore sulle tue torri al rombo del cannon! Naviga, o corazzata: benigno è il vento e dolce la stagion. Tripoli, terra incantata, sarai italiana al rombo del cannon!»

Il rombo del cannone si faceva sentire ventun giorni dopo: alle ore 14 del 29 settembre, due ore prima della scadenza dell’ultimatum che l’Italia aveva indirizzato all’Impero Ottomano, al largo del porto epirota di Prevesa avveniva il primo scontro fra navi da guerra italiane e turche. La “guerra di Libia” era iniziata.



Rievocazioni

di Michele Rallo


MA ALLORA

ERA UNA COSA SERIA …

CENTO ANNI FA

L’ITALIA ALLA CONQUISTA

DELLA LIBIA


[da “La Risacca”, settembre 2011]


LA PRIMA GUERRA DELL’ITALIA UNITA. LE ORIGINI DEL COLONIALISMO ITALIANO. ALLA RICERCA DI UN POSTO TRA LE “GRANDI POTENZE”. IL RAPPORTO DI FORZE FRA ITALIA E TURCHIA.


Anche se l’unità d’Italia viene ufficialmente fatta risalire al 1861, la completa unità nazionale si ebbe soltanto nel 1870, dopo la terza guerra d’indipendenza (che aveva strappato il Veneto all’Austria) e la presa di Roma (che aveva segnato la fine dello Stato Pontificio e l’annessione del Lazio alla nazione italiana).

La guerra italo-turca del 1911-12 fu dunque, di fatto, la prima vera guerra dell’Italia unita; una guerra che non mirava più al completamento dell’unità territoriale (come gli episodi del 1866 e del 1870), ma che aveva invece l’obiettivo di acquisire nuovi territori da colonizzare. L’Italia, infatti, giunta all’unità nazionale soltanto da pochi anni, aveva bisogno di riguadagnare in fretta il tempo perduto, per mettersi alla pari con le altre grandi nazioni europee e per essere ammessa nel ristretto circolo delle “grandi potenze”; un circolo che, all’epoca, comprendeva soltanto Inghilterra, Francia, Germania, Austria e Russia. Per ottenere questo risultato, il giovane Regno d’Italia doveva riuscire a svolgere un suo ruolo e ad occupare un suo spazio nel Mediterraneo, che – come abbiamo visto – era allora dominato ed egemonizzato da Inghilterra e Francia. L’Italia – si è già detto – doveva necessariamente stabilire una propria testa di ponte nel Nordafrica, in modo da poter interporsi tra le flotte e le colonie di Londra (ad est) e di Parigi (ad ovest). Ecco il perché del forte interesse italiano verso i territori mediterranei dirimpettai: verso la Tunisia prima, verso la Tripolitania adesso.

Ma, al di là delle strategie mediterranee, l’Italia aveva anche un altro motivo per ambire alla Libia: rimpinguare il suo scarsissimo impero coloniale (allora costituito soltanto dalla piccola Eritrea), rincorrendo anche qui le “grandi potenze” che, tutte, dominavano imperi assai vasti negli altri Continenti, o talora – era il caso dell’Austria – nella stessa Europa.

Non soltanto le grandi potenze, peraltro, disponevano di grandi imperi coloniali. Anche nazioni più modeste – la Spagna, il Portogallo, il Belgio, l’Olanda – potevano contare su vasti possedimenti in Africa, in Asia, in America Latina.

L’impresa libica fu, dunque, l’estrinsecazione del “secondo colonialismo” italiano; il primo era stato diretto dai governi della Sinistra (Depretis e Crispi) verso il Mar Rosso ed il Corno d’Africa; il terzo sarà quello di Mussolini, culminato nella guerra d’Etiopia.

Adesso – e torniamo così al 1911 – il governo guidato da Giovanni Giolittti scendeva in guerra contro la Turchia, grande potenza – ancorché non europea – che deteneva un vastissimo impero coloniale, diffuso su tre continenti: dall’Albania a Costantinopoli, dall’Asia Minore alla Mesopotamia, fino – appunto – alle regioni libiche. Oltre che sotto l’aspetto politico, la Turchia era una grande potenza anche dal punto di vista militare: per ben due secoli – dal 1676 al 1878 – aveva resistito ai ripetuti assalti dell’Impero Russo, vanamente proteso a contendere all’Impero Ottomano la regione di Costantinopoli e degli Stretti, vera e propria porta di accesso a quel Mar Nero che gli Zar avrebbero voluto trasformare in un “lago russo”. Si erano contate ben sei guerre russo-turche, ma la Turchia era ancòra a Costantinopoli; così come (malgrado avesse dovuto subire l’indipendenza di Grecia, Serbia, Bulgaria e Romania) era ancòra saldamente installata nel Sudest europeo, fino alla riva orientale dell’Adriatico, a poche braccia di mare dalle coste italiane.

La “Italietta” liberale, questa volta, era andata a scegliersi un nemico assai temibile, un nemico duro, spigoloso, pericoloso. E si trattava di un nemico che disponeva di una straordinaria macchina da guerra: quattro formidabili Armate di terra (che i turchi chiamavano Ordù, cioè Orde), comprensive di una potente artiglieria e di una cavalleria temuta da tutti gli eserciti del mondo.

Per fortuna, però, l’Italia era nettamente superiore sui mari. La Regia Marina era così forte (quantitativamente e qualitativamente) da incutere timore perfino alla Mediterranean Fleet britannica, e – fin dal primo giorno del conflitto – portava attacchi devastanti alle forze turche in Libia e, più tardi, anche alle coste della stessa Anatolia. Inoltre, pattugliando l’intero Mediterraneo Orientale, la nostra marina impedirà agli ottomani di far affluire rinforzi alle loro truppe in Tripolitania e Cirenaica.

Infine, l’aviazione. Nel 1911 non esisteva ancora una autonoma aeronautica militare né in Italia, né in Turchia, né negli altri paesi europei. Tuttavia, l’Italia impiegherà in Libia la neocostituita Sezione Aviazione del Regio Esercito, che sarà protagonista della prima “guerra tecnologica” della storia.

Vedremo in seguito come gli esiti della guerra italo-turca andranno a modificare gli equilibri mediterranei, accrescendo il peso politico e militare dell’Italia in quell’area.



Rievocazioni

di Michele Rallo


NEL 1912 LA CONQUISTA

DELLA LIBIA E

DEL DODECANNESO:

L’ITALIA DIVENTA

UNA “GRANDE POTENZA”

MEDITERRANEA


[da “La Risacca”, ottobre 2011]


IL SUCCESSO DELL’AZIONE ITALIANA IN LIBIA. LA CONQUISTA DEL DODECANNESO. L’ITALIA DIVENTA UNA GRANDE POTENZA. L’INGHILTERRA TEME IL DINAMISMO ITALIANO, CUI CONTRAPPONE IL RIVENDICAZIONISMO DELLA GRECIA.


Subito dopo l’inizio delle ostilità (29 settembre 1911), l’Italia portava l’attacco ai principali porti libici, che venivano rapidamente occupati fra il 4 ed il 22 ottobre. Difficoltà senz’altro maggiori gli italiani incontravano quando si spingevano verso l’interno. I turchi si erano ritirati lontano dal mare, dove non potevano essere raggiunti dal cannoneggiamento delle navi nemiche. Lì si erano attestati in difesa, supportati anche da numerose unità di irregolari fornite dalle tribù arabe e berbere del luogo. Contrariamente alle attese degli italiani – infatti – i capiclan libici, che i nostri servizi segreti avevano dato come ostili alla colonizzazione ottomana, si schieravano in larga parte con i turchi, accomunati dalla medesima fede islamica. Ciò soprattutto nella parte orientale del paese, la Cirenaica, dove più forte era l’influenza della setta musulmana fondamentalista dei Senussi.

Malgrado ciò, quasi sùbito era chiaro a tutti che l’Italia avrebbe avuto immancabilmente partita vinta. Due le motivazioni: in primo luogo, un impenetrabile blocco navale che impediva ai turchi di far affluire rinforzi in Libia; e, in secondo luogo, la evidente superiorità della macchina bellica italiana. Abbiamo già accennato all’utilizzo di una pionieristica Sezione Aviazione del Regio Esercito (9 aeroplani e 3 dirigibili). Va pure considerato l’impiego – anche in questi casi per la prima volta al mondo – di un servizio di trasmissioni radio (affidato all’Arma del Genio e supervisionato dallo stesso Guglielmo Marconi) e di reparti di fanteria motorizzata (su autovetture e su motocicli); oltre all’utilizzo di truppe d’élite di grande impatto: i Fucilieri di Marina (nulla da invidiare ai Marines americani) e, naturalmente, i Bersaglieri.

Già nei primi mesi del 1912 la probabile vittoria italiana aveva rimescolato tutte le carte della diplomazia europea: la Russia continuava a promuovere con nuova lena la formazione di una Lega Balcanica antiturca (Bulgaria, Grecia, Serbia e Montenegro), mentre l’Inghilterra – che pure aveva dato il via libera all’impresa italiana – tornava a sostenere più o meno ufficialmente le posizioni ottomane. La Gran Bretagna chiedeva all’Italia di raggiungere un compromesso con la Turchia, rinunziando così al disegno strategico che era alla base della guerra di Libia.

D’altro canto, Londra aveva dato il suo assenso all’azione italiana solo a denti stretti; anzi, strettissimi. Non era un mistero per nessuno che l’Inghilterra avrebbe preferito unire la Cirenaica al suo protettorato egiziano, lasciando che i francesi si impadronissero della Tripolitania e la saldassero alla Tunisia. Nell’impossibilità che un piano del genere si realizzasse, la speranza era almeno che Roma e Costantinopoli si logorassero in una lunga guerra senza vincitori né vinti, lasciando campo ancòra più libero alle azioni britanniche nel Mediterraneo Orientale. Una vittoria dell’Italia non era auspicata; soprattutto una vittoria rapida e schiacciante.

L’Italia capiva l’antifona, e – una volta tanto – rispondeva per le rime. Non soltanto ribadiva che non avrebbe deposto le armi prima della conquista totale della Libia, ma alzava il tiro e rilanciava: la Regia Marina abbandonava le posizioni difensive e si riversava nell’Egeo, portando l’attacco fino alle coste della stessa penisola anatolica. A maggio gli italiani occupavano la grande isola di Rodi e le altre del Dodecanneso, un arcipelago ottomano (ma con popolazione greca) a pochi chilometri dalla costa anatolica. A luglio le nostre navi attaccavano addirittura i Dardanelli, riuscendo a violare il primo tratto degli “inviolabili” Stretti”. Gli Stretti – si tenga presente – erano sostanzialmente un lungo corridoio, che andava dal Mar Nero (stretto del Bosforo) al Mar Egeo (stretto dei Dardanelli) attraverso il Mar di Marmara.

La Turchia era ormai battuta: gli italiani pattugliavano le sue coste e, non appena il grosso della flotta turca avesse a sua volta varcato gli Stretti per affrontare il combattimento, sarebbe stata certamente annientata dalla nostra armata navale, quantitativamente e qualitativamente superiore. E ciò, mentre da un momento all’altro poteva scattare l’attacco della Lega Balcanica contro i residui domìni ottomani in Europa, senza che la Turchia potesse far affluire rinforzi via mare.

A quel punto, giungeva l’alt dell’Inghilterra all’Italia, lo stesso alt arrogante e minaccioso che già in passato era stato rivolto alla Russia e che pochi mesi dopo sarà diretto alla Bulgaria, l’una e l’altra bloccate quando i rispettivi eserciti erano a 50 chilometri dalle mura di Costantinopoli. L’Italia non doveva distruggere la flotta turca, ed anzi doveva affrettarsi a fare la pace con l’Impero Ottomano, prima che questo dovesse trovarsi a fronteggiare una nuova guerra in Europa. Il 18 ottobre 1912, così, Italia e Turchia firmavano la pace. Lo stesso giorno, con la dichiarazione di guerra della Serbia e della Bulgaria all’Impero Ottomano, aveva inizio la Prima Guerra Balcanica.

L’Italia, dunque, aveva vinto la guerra, anche se era stata costretta a fermarsi prima di aver assestato il colpo decisivo all’avversario. Non si trattava, comunque, di una vittoria di poco conto: avevamo ottenuto la Libia, e potevamo così installarci in uno spicchio di mare che fungesse da spartiacque tra francesi ed inglesi, e che potesse – in via d’ipotesi – sbarrare alla flotta britannica l’accesso al Mediterraneo Orientale. E non era tutto, perché avevamo anche insinuato un grosso cuneo nel bel mezzo dell’Egeo britannizzato: fra gli Stretti a nord e, a sud, la grande isola di Cipro, formalmente ancòra parte dell’Impero Ottomano ma, di fatto, occupata “provvisoriamente” (come l’Egitto) dalla Gran Bretagna.

L’Inghilterra non ci perdonerà mai questo affronto. Da quel momento aizzerà contro di noi la Grecia, indotta a chiedere con asfissiante insistenza che l’Italia le regalasse graziosamente le isole strappate con le armi ai turchi. In questa opera di sobillamento la “perfida Albione” non avrà alcun pudore: «Riguardo alle isole dell’Egeo – dichiarerà nel 1913 il Ministro degli Esteri britannico Grey – vi è un punto sul quale noi, per la nostra posizione nel Mediterraneo e per considerazioni d’indole navale, abbiamo interessi particolari; e questo punto è il seguente: che nessuna di tali isole debba essere reclamata o tenuta da alcuna delle Grandi Potenze.» Il riferimento all’Italia e al Dodecanneso era chiaro. Peccato che una tale affermazione provenisse da un rappresentante di quella Grande Potenza che occupava la maggiore delle isole egee, cioè Cipro. Ma – si sa – la coerenza non è mai stata una virtù britannica.



Rievocazioni

di Michele Rallo


GUERRA CONTRO LA LIBIA

O

GUERRA CONTRI L’ITALIA?


[da “La Risacca”, aprile 2011]


LA “MISSIONE DI PACE” IN LIBIA MIRA AD UN CAMBIO DI REGIME A TRIPOLI. MA NON SOLO. NEL MIRINO DELLA NATO C’È ANCHE LA POLITICA ENERGETICA DELL’ITALIA, DA SEMPRE AVVERSATA DAI NOSTRI CARI “ALLEATI”


La “missione di pace” decretata dalla NATO per favorire una delle due fazioni libiche non è diretta soltanto contro il regime di Gheddafi, ma anche contro l’Italia. La Libia, infatti, non è stata certo attaccata perché il suo regime era scarsamente democratico – non lo credono neanche i bambini! – ma perché Stati Uniti e Inghilterra (con la Francia nel ruolo di Pierino) hanno deciso di scippare all’Italia il ricco mercato petrolifero libico e di acquisirlo al loro “impero” energetico. L’Italia – e qui siamo veramente alla farsa – è stata talmente obbediente ai desiderata della “grande alleata” da decidere di prendere parte a questa guerra (è guerra autentica, non intervento umanitario) per colpire i suoi stessi interessi e per favorire quelli dei cosiddetti alleati. Berlusconi – fresco reduce da un baciamano che avrebbe fatto invidia a Giuda Iscariota – ha probabilmente tentato di resistere, ma alla fine ha dovuto chinare la schiena alle imposizioni dei poteri forti, anzi fortissimi, di Washington. Evidentemente, non è stato in grado di ripetere il gesto orgoglioso di Bettino Craxi, che al tempo della crisi di Sigonella ebbe il fegato di mandare a quel paese il Presidente degli Stati Uniti.

E, tuttavia, se si vogliono comprendere veramente gli avvenimenti libici di questi giorni, si deve risalire assai più indietro nel tempo; perché è esattamente da 100 anni – dall’epoca cioè della guerra italo-turca del 1911-12 – che la politica mediterranea dell’Italia (la politica “di potenza” dapprima, la politica energetica poi) ruota attorno al rapporto con la Libia. Naturalmente, non possiamo in questa sede ripercorrere le vicende di un secolo intero: prenderemo perciò le mosse dal secondo dopoguerra, quando Enrico Mattei riuscì a scongiurare la privatizzazione dell’AGIP (cioè la vendita agli americani) e successivamente – nel 1953 – diede vita all’ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi, che in breve diventerà il più temibile concorrente internazionale delle “sette sorelle” anglo-americane. Senza addentrarci in particolari, diremo soltanto che Mattei riuscì a “soffiare” agli americani alcuni “mercati” non ancora stabilizzati, primo fra tutti quello dell’Iran; riuscì, inoltre, ad indirizzare la politica estera italiana verso un crescente filoarabismo (sia pur moderato, “alla democristiana”), suscitando la diffidenza degli Stati Uniti e di Israele. Enrico Mattei perirà poi – nel 1962 – vittima di un attentato i cui mandanti ed esecutori sono a tutt’oggi ignoti.

Mentre Mattei – nei primi anni ’50 – andava tessendo la sua “diplomazia parallela” filoaraba, gli inglesi (che avevano ottenuto il mandato ONU per “accompagnare” la Libia verso l’indipendenza) si davano da fare per impedire che la nostra ex-colonia potesse tornare nell’orbita italiana; anche perché già si sapeva della presenza di ricchi giacimenti petroliferi. Per realizzare questo disegno, gli inglesi utilizzarono un maggiorente della Cirenaica: quell’Idris al-Senussi che, negli anni della guerra, era stato il loro uomo in Cirenaica, dove aveva diretto la guerriglia contro gli italiani. Imposto dai suoi padrini anche in Tripolitania (di cui era sorprendentemente nominato “emiro”), Idris cingeva infine la corona dell’intera Libia, quando i britannici, nel 1951, ne tenevano a battesimo l’indipendenza. Il neonato Regno Unito di Libia era così acquisito all’orbita inglese.

Facciamo adesso un altro salto temporale e giungiamo al 1969, quando il colonnello Muammar al-Gheddafi operava un colpo-di-Stato, deponeva re Idris e proclamava la repubblica. Gheddafi era un nazionalista intransigente, e la folta comunità italiana in Libia faceva drammaticamente le spese di questa sua intransigenza. Ma, per strano che possa sembrare, in politica estera era sostanzialmente filoitaliano; così come l’Italia – pur colpita dalla espulsione della nostra comunità – era di fatto filolibica. Anzi, non manca chi – ricordando come il putsch gheddafiano fosse stato organizzato in Italia – avanza il sospetto (a nostro avviso fondato) che il governo di Roma avesse discretamente favorito una manovra che, nei fatti, mirava a restituire all’Inghilterra lo “sgarbo” della intronizzazione di Idris. Fantapolitica? Forse. Resta il fatto che il controgolpe tentato dai seguaci di Idris nel 1971 era – secondo quanto si sussurrava in alcuni ambienti “bene informati” – patrocinato ed organizzato dai servizi segreti inglesi. Così come resta il fatto che quel controgpolpe (in codice Operazione Hilton) fallì perché il nostro servizio segreto – guidato all’epoca dal trapanese Vito Miceli – si mise di traverso.

Anche qui siamo costretti a sorvolare su tante altre vicende – Ustica compresa – per giungere ai giorni nostri ed alle tante intese raggiunte con la Libia da vari governi italiani (ultima quella firmata da Berlusconi); intese tutte tese a rinforzare i nostri legami economici con Tripoli ed a sancire il nostro accesso privilegiato al ricco mercato energetico (gas e petrolio) della nostra ex-colonia. Evidentemente, tutto ciò – e soprattutto l’ultimo e più impegnativo accordo Italia-Libia – ha indispettito i nostri cari “alleati”. A Roma girava già da qualche tempo la voce che gli americani avrebbero fatto pagare caro a Berlusconi sia l’accordo con la Libia di Gheddafi, sia quello – per certi versi analogo – con la Russia di Putin. E il conto è presto arrivato, salatissimo: è una nuova Operazione Hilton, un nuovo colpo-di-Stato organizzato – guarda caso – dai medesimi ambiente filobritannici della Cirenaica che nel 1971 tentarono di riportare la Libia nell’orbita anglosassone. Obiettivo ufficiale è il colonnello di Tripoli. Ma l’obiettivo vero è l’Italia, che deve essere privata del mercato libico. E noi – da bravi sudditi “atlantici” – abbiamo messo a disposizione le basi da cui far partire i bombardieri diretti a colpire i nostri interessi in Libia. Enrico Mattei si starà rivoltando nella tomba.



Rievocazioni

di Michele Rallo


L’ITALIA, LA LIBIA E

GLI EQUILIBRI MEDITERRANEI


[da “La Risacca”, maggio 2011]


DA ENRICO MATTEI A BETTINO CRAXI: LA DIPLOMAZIA FILOARABA DELL’ITALIA. LA LINEA DI ALDO MORO E IL RUOLO DI VITO MICELI. UNA STRATEGIA POLITICA CHE GUARDAVA LONTANO.


Solitamente, la politica estera di un Paese è qualche cosa di duraturo e di stabile, compatibilmente con il mutare degli scenari internazionali; sopravvive ai cambi di governo e persino ai cambi di regime; è quasi sempre condivisa anche dalle forze d’opposizione, che avranno il compito di applicarla a loro volta nel caso di un avvicendamento al potere. L’Italia non fa eccezione; fin dal raggiungimento dell’unità nazionale, la nostra politica estera ha privilegiato due settori: l’Europa Orientale e il Mediterraneo. Dopo la Seconda guerra mondiale, essendo oramai precluso ogni sbocco nell’area esteuropea divenuta riserva di caccia esclusiva dell’Unione Sovietica, la diplomazia italiana ha concentrato tutta la sua attenzione sul teatro del Mediterraneo, considerato vitale per i nostri interessi.

Si è già accennato alla genesi della nuova politica estera italiana nel secondo dopoguerra, ed al ruolo fondamentale che Enrico Mattei ebbe nell’indirizzare la nostra diplomazia in direzione nettamente filoaraba. Il dinamismo matteiano era apertamente avversato dagli USA (ma anche da Francia e Inghilterra) per evidenti ragioni di carattere economico: è stato infatti calcolato – rileviamo da Wikipedia – che la concorrenza dell’ENI sia costata alle multinazionali petrolifere anglosassoni (le “sette sorelle”) una cifra pari al bilancio annuale di uno Stato di media grandezza. Parallelamente, però, gli Stati Uniti si trovavano a dover fronteggiare il tentativo dell’amica Inghilterra di tornare ad esercitare – con il concorso di una Francia sempre più succube – un controllo assoluto sul Mediterraneo. La qualcosa – sia detto en passant – non era assolutamente gradita a Washington. Ecco perché gli americani, se da un lato avversavano il Mattei “imprenditore”, per altri versi apprezzavano il Mattei “politico”, considerandolo l’unico elemento capace di tessere una tela di relazioni internazionali che potesse limitare lo strapotere anglo-francese nel Mediterraneo e in Nordafrica.

Comunque, una volta uscito di scena Enrico Mattei (ucciso in un misterioso attentato nel 1962), la politica estera italiana ha continuato ad essere caratterizzata da un filoarabismo di fondo, ma perdendo gradualmente la sua carica “sovversiva” di minaccia agli interessi economici statunitensi. E gli USA, conseguentemente, non hanno più avuto remore ad appoggiare l’Italia in contrapposizione all’asse anglo-francese nel Mediterraneo. Questa tendenza ha avuto anche una sanzione per così dire “ufficiale” nel 1969, quando il Comando delle forze navali NATO del Sud Europa venne affidato a un italiano, l’ammiraglio Gino Birindelli.

Per un certo periodo, dunque, le due costanti della politica estera italiana – la fedeltà alla NATO e la simpatia per il mondo arabo – procedettero di pari passo, senza palesare gravi episodi di incompatibilità. Elemento centrale di questa politica al contempo atlantista e filoaraba fu il leader della sinistra democristiana Aldo Moro, che dal 1964 al 1976 fu quasi ininterrottamente Presidente del Consiglio e/o Ministro degli Esteri. Altro protagonista non secondario di tale tendenza fu il generale Vito Miceli, che per un cospicuo lasso (dal 1969 al 1974) dell’epoca “morotea” fu a capo del servizio segreto militare. E di Miceli abbiamo già ricordato il ruolo avuto, nel 1971, nello sventare il complotto inglese per abbattere Gheddafi.

Frattanto, però, il panorama mediterraneo era diventato più articolato e complicato. Un altro paese dello schieramento occidentale, Israele, si candidava a svolgere il ruolo che fino a quel momento era stato dell’Italia; il ruolo, cioè, di proconsole della potenza americana nel Mediterraneo. La diplomazia del governo di Roma finiva dunque nel mirino del governo di Tel Aviv, che peraltro avversava apertamente la politica italiana di amicizia verso i paesi arabi, accusati di essere sostenuti dall’Unione Sovietica in funzione antisraeliana. Ma Moro non defletteva, ed anzi si spingeva fino a stabilire un accordo segreto con i palestinesi (il cosiddetto e per certi versi ancora misterioso “lodo Moro”) che suscitava le ire di Israele.

Intanto il pressing israeliano nei confronti degli Stati Uniti otteneva il suo scopo, e l’Italia andava gradualmente perdendo il suo ruolo di massima rappresentante degli interessi occidentali nello scacchiere mediterraneo. Ruolo in breve acquisito da Israele, la cui candidatura era ovviamente sostenuta dalla potentissima lobby ebraica negli Stati Uniti.

L’Italia del dopo-Moro accusava il colpo, e per qualche tempo annaspava alla ricerca di una precisa strategia diplomatica. Poi, l’avvento del governo Craxi (1983-1987) segnava una svolta “decisionista” di grande rilevanza. L’Italia tornava ad una politica filoaraba addirittura più netta di quella del periodo moroteo; e, parallelamente, pur mantenendosi fedele all’Alleanza Atlantica, si dimostrava indisponibile ad avallare la politica sempre più aggressiva dell’America reaganiana nel Mediterraneo. Le tappe principali di questa nuova e dinamica linea diplomatica furono tre: l’orgogliosa difesa della sovranità nazionale di fronte alle minacce del presidente Reagan al tempo della crisi di Sigonella (ottobre 1985), il sabotaggio del bombardamento americano di Tripoli (aprile 1986), e – anche se all’epoca Craxi non era più da qualche mese Presidente del Consiglio – il colpo-di-Stato che a Tunisi portò al potere il filoitaliano Zine el-Abidine Ben Alì (novembre 1987).

E veniamo all’ultimo capitolo di questa breve rassegna, quello dedicato ai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Fino a pochi mesi fa si era avuta l’impressione che Berlusconi volesse seguire le tradizioni della migliore diplomazia italiana. Lo testimoniavano, tra l’altro, la coraggiosa presa di posizione all’epoca della breve “guerra del Caucaso” (che contribuì a fugare il pericolo di una pericolosissima estensione del conflitto), oltre ad una accorta politica energetica che ha portato l’Italia a firmare importanti accordi con la Russia e con la Libia; accordi avversati dagli Stati Uniti non soltanto per evidenti ragioni di cassetta, ma anche perché mettevano in discussione il principio di subordinazione politica dell’Italia alla potente alleata.

Poi, invece, gli avvenimenti di queste ultime settimane hanno segnato una brusca inversione di tendenza. Il governo Berlusconi ha accettato senza fiatare tutti i diktat degli Stati Uniti: prima la liquidazione del governo filoitaliano di Ben Alì in Tunisia, poi il brutale tradimento del patto d’amicizia con la Libia firmato solo qualche settimana prima, ed infine la partecipazione ai bombardamenti che hanno il fine dichiarato di favorire il partito filoinglese che altrimenti non riuscirebbe mai a prevalere sulle forze del colonnello Gheddafi. E, tutto questo, al solo scopo di favorire gli interessi americani, inglesi e francesi. A scapito, naturalmente, degli interessi italiani. L’opposizione, intanto, tace. Preferisce occuparsi del caso Ruby e di consimili fondamentali argomenti.



Rievocazioni

di Michele Rallo


LA STRAGE DI USTICA


[da “La Risacca”, febbraio 2013]


SAREBBERO STATI I “CUGINI” FRANCESI, PER DARE LA CACCIA A GHEDDAFI. MA IL GOVERNO ITALIANO NON SI ERA ACCORTO DI NULLA


Finalmente, una sentenza giudiziaria ha stabilito la prima verità “ufficiale” sulla strage di Ustica: ci sono voluti ben 33 anni di indagini perché – sia pur soltanto in sede civile e non penale – la Cassazione sancisse che l’abbattimento del DC-9 Itavia fu causato da un missile e non da una esplosione interna, condannando lo Stato italiano a risarcire i parenti delle 81 vittime la cui sicurezza in volo non era stata adeguatamente tutelata.

Ma questa verità “ufficiale” era già nota agli addetti ai lavori, e il giudice istruttore che a suo tempo seguì il caso l’ha ribadita – in epoca recente – in un libro che solleva molti veli sulla stagione delle stragi in Italia, rifacendo la storia delle organizzazioni terroristiche nostrane alla luce degli appoggi e delle complicità internazionali poste a monte della “strategia della tensione” che mirava a destabilizzare l’Italia ed a ridurne il peso geostrategico nel teatro mediterraneo. Il magistrato in questione è Rosario Priore, un “giudice coraggioso” per davvero, che non perde tempo a frugare fra le lenzuola dei politici, ma ha piuttosto il fegato di sfidare i più temuti servizi segreti del mondo.

Nel 2010 Priore ha pubblicato un libro-intervista (realizzato da Giovanni Fasanella per l’editrice Chiarelettere) dal titolo rivelatore: “Intrigo internazionale”. Ancora più chiaro il sottotitolo: “Perché la guerra in Italia: le verità che non si sono mai potute dire”. Si tratta di un testo prezioso, che ripercorre lucidamente (e Priore è culturalmente attrezzato per farlo) le tappe della politica mediterranea dell’Italia nel dopoguerra, dedicando particolare attenzione ai contrasti con le diplomazie degli Stati nostri “concorrenti” in quel settore: la Francia, in primo luogo, ma anche l’Inghilterra e Israele.

Secondo la ricostruzione di Rosario Priore (supportata da prove e riscontri oggettivi, nonostante gli evidenti depistaggi e una decina di testimoni morti “accidentalmente”) la sera del 27 giugno 1980 un aereo libico con Gheddafi a bordo stava volando sul Mediterraneo per raggiungere il Tirreno e puntare poi su Varsavia. Ma i servizi francesi avevano saputo, ed avevano in tutta fretta predisposto un agguato aereo. I libici, a loro volta, avuto sentore di ciò che si stava preparando, avevano fatto partire dalla Jugoslavia due loro Mig che – attraversando lo spazio aereo italiano più o meno clandestinamente – avrebbero dovuto raggiungere l’aereo di Gheddafi all’altezza di Malta, per poi scortarlo a destinazione.

Per far ciò, i Mig attraversarono l’Adriatico e si “nascosero” nella scia-radar di un aereo civile italiano (appunto il DC-9 Itavia) che volava da Bologna a Palermo. Ma la manovra non sfuggì ai francesi, che probabilmente mandarono due loro caccia per abbattere gli aerei libici. Lo scontro avvenne praticamente sotto la “pancia” del DC-9 italiano, colpito con ogni probabilità da un missile francese, evidentemente non abbastanza “intelligente” per cogliere il bersaglio giusto.

L’esito finale di questo vero e proprio episodio di guerra aerea non è noto in tutti i suoi dettagli: di certo v’è soltanto l’abbattimento del nostro aereo civile; dei due Mig libici, uno riuscì ad allontanarsi: probabilmente era quel velivolo poi precipitato sulla Sila, dove pochi giorni dopo ne vennero ritrovati i rottami. Gheddafi, naturalmente, rinunziò al suo viaggio segreto e rientrò in tutta fretta a Tripoli, dove si diede a fronteggiare la rivolta che i suoi nemici interni avevano preparato (e che scatterà poi ad agosto).

Altro elemento strano – puntualmente segnalato da Rosario Priore – era lo stazionamento sul Tirreno di un aereo-radar americano Awaks in un orario assolutamente insolito. Forse – è una mia personalissima ipotesi – un “aiutino” per i francesi?

Infine, la vera e propria morìa di testimoni, tutti deceduti – in un modo o nell’altro – prima che potessero dettare a verbale le loro testimonianze. Come gli ufficiali-pilota Naldini e Nutarelli, che quel 27 giugno 1980 si trovavano in volo di addestramento in una rotta prossima a quella del DC-9 e che avevano lanciato alla base un preciso segnale di allarme; uno dei due aveva confidato a un collega che quel giorno «era successo qualcosa di terribile, che c’era stato un vero e proprio combattimento aereo e che si era sfiorata addirittura una guerra». Convocati da Priore, i due ufficiali non arrivarono a testimoniare: morirono pochi giorni prima in Germania, in un incidente occorso durante una esibizione delle Frecce Tricolori. Guarda caso, altri ufficiali e sottufficiali della nostra Aeronautica – tutti in servizio ai radar in quella drammatica serata – perirono prima di poter testimoniare; c’è una strana casistica che comprende di tutto: incidenti, suicidi e financo una morte per infarto di soggetto perfettamente sano. Per non parlare poi dei depistaggi, delle prove fatte sparire anche in maniera marchiana: nastri con tracciati radar “tagliati e cuciti”, registri cartacei da cui erano stati strappati i fogli relativi al giorno della strage, eccetera.

Ma, in sostanza, che cosa era avvenuto nei cieli di Ustica in quella maledetta notte del 1980? Priore non si sottrae all’ònere della conclusione finale: «è evidente che il DC-9 fu abbattuto da uno o più aerei militari, sicuramente indirizzati verso l’obiettivo da un’efficiente “guida caccia”, un potente sistema radar in grado di “vedere” anche a centinaia di chilometri di distanza.» Un velo di prudenza in più (ma solo un velo) nella indicazione dei responsabili: «Solo due paesi erano in grado di compiere [in quell’area] una operazione militare di quel tipo: gli Stati Uniti e la Francia. (…) Tenderei a escludere responsabilità dell’amministrazione americana dell’epoca.» Più chiaro di così …

Fin qui, la storia. Ma alcune considerazioni politiche – diciamo così – vanno fatte. Passi per la “ragion di Stato” che ha impedito di rendere pubbliche notizie che avrebbero causato una frattura difficilmente sanabile all’interno della NATO (e in un periodo di forti tensioni internazionali). Ammettiamo pure che si dovesse a tutti i costi tacere. Ma perché – allora – non si è invocato ufficialmente il segreto di Stato, dichiarando esplicitamente che i fatti di Ustica dovevano restare segreti per non mettere in pericolo la sicurezza nazionale? E, invece, no. Con ipocrisia tutta italiana si affermò che tutto era a posto, che non c’era nulla di misterioso, e che – in nome della democrazia e dello Stato di diritto – la magistratura poteva indagare come meglio credeva. Così, oltre a nascondere la verità (e sarebbe stato il meno!), si rifiutarono i rimborsi ai parenti delle vittime, si trascinò al fallimento la società Itavia, si costrinsero alcuni alti ufficiali a mentire (per dovere d’ufficio) e ad essere imputati per falsa testimonianza, e – soprattutto – si esposero molti testimoni al rischio di strani incidenti o di repentini infarti. Tutte cose che in un paese “normale” non sarebbero accadute.



Rievocazioni

di Michele Rallo


PETROLIO E DEMOCRAZIA:

OVVERO,

COME NASCE UNA GUERRA


[da “La Risacca”, marzo 2011]


IL REGIME LIBICO OPPRIME IL SUO POPOLO E I “BUONI” SONO INTERVENUTI PER LIBERARLO. MA È ANDATA VERAMENTE COSÌ?


Ma, guarda un po’, quanto questi americani sono diventati sensibili alle “grida di dolore” che si alzano dai popoli oppressi e anelanti alla democrazia. D’altro canto, l’istinto dei “liberatori” i potenti d’oltreoceano l’hanno sempre avuto nel sangue: ultimi ad essere liberati – in ordine di tempo – sono stati gli irakeni e gli afghani. Adesso tocca ai libici. Per il futuro, si accettano scommesse. Noi azzardiamo una previsione: i favoriti alla nomination sono certamente gli iraniani. Magari additando alla pubblica opinione mondiale un fatto raccapricciante, come la lapidazione di un’adultera. Naturalmente, occorrerà tenere celato alla medesima opinione pubblica che – forse soltanto qualche giorno prima – la lapidazione possa essere stata decretata in qualche altro Stato islamico, anche “moderato”… chessò, per esempio, l’Arabia Saudita, dove – oltre alla lapidazione – si pratica anche qualche altre folcloristica forma di esecuzione: la decapitazione con successiva ricucitura del capo sul tronco e crocefissione del cadavere, per esempio. Ma in Arabia Saudita le multinazionali americane sono le benvenute e, conseguentemente, le grida di dolore non ci possono essere.

Lasciamo comunque stare il futuribile e ritorniamo al presente. Oggi, dunque, si è deciso di fare la guerra alla Libia di Gheddafi. Ufficialmente, però, non si tratta di una guerra con obiettivi di semplice rapina petrolifera, bensì di una benevola missione di pace, con nobili scopi umanitari: bisogna impedire che il feroce dittatore “spari sul suo popolo” e semmai convincerlo a concedere più democrazia.

Le cose, in realtà, non stanno così; ed è più che evidente. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché analoghe “missioni di pace” non siano state programmate in altri due paesi arabi (lo Yemen ed il Barhein) dove in questi stessi giorni – direi in queste stesse ore – la polizia ha aperto il fuoco sui dimostranti, lasciando sul terreno decine, forse centinaia di morti. Né, soprattutto, si spiegherebbe il perché di un mancato intervento in Birmania, dove la locale dittatura militare prosegue anche oggi alacremente – nel più assoluto disinteresse del resto del mondo – l’opera di pulizia etnica ai danni delle tribù Karen: qualcosa come 4 milioni di individui, che possono scegliere soltanto tra il fuggire in Thailandia o il bruciare vivi nei propri villaggi.

Strano, assai strano che a Washington non sia stata organizzata una sacrosanta “missione di pace” in Birmania per soccorrere la popolazione Karen; proprio come nessuna “missione di pace” è stata organizzata in Sudan, dove per decenni è stato attuato un genocidio sistematico ai danni delle tribù negre (e cristiane) del Darfur. A una tregua si è giunti soltanto nel gennaio di quest’anno, e non è detto che il difficile compromesso continui a reggere. Ma, niente paura: se così non dovesse essere e se gli islamici del nord dovessero riprendere la pulizia etnica del sud cristiano, i nostri coscienziosi governanti volgeranno pudicamente lo sguardo da un’altra parte. Occhio non vede, cuore non duole. Tutt’al più, dagli schermi televisivi saremo invitati a fare una telefonata per donare due euro per un mese di vita a un bambino del Darfur. E nessun telegiornale mostrerà immagini sconvolgenti registrate da un telefonino a rischio della vita del povero studente di turno.

Esattamente come, non moltissimi anni addietro, nessuno si è sognato di intervenire in Ruanda, per impedire che le tribù Utu macellassero le tribù Tutsi e viceversa: un milione di morti ammazzati a colpi di machete e di bastoni chiodati, mentre Stati Uniti, Inghilterra e Francia pacificamente incrociavano le armi della diplomazia per favorire l’una o l’altra parte.

E in Libia, oggi, che cosa è successo? Semplice: un tentativo di colpo-di-Stato ad opera delle tribù della Cirenaica contro il potere delle tribù della Tripolitania, cui appartiene Gheddafi. Gheddafi ha reagito, come da previsto copione: non sparando “sul suo popolo”, ma sparando su un esercito ribelle che “qualcuno” aveva finanziato, organizzato, armato e spinto all’azione. Il “circo mediatico” mondiale ha fatto il resto, diffondendo notizie del tutto false ma tali da creare nell’opinione pubblica internazionale uno stato d’animo favorevole all’intervento. Un esempio? Si è parlato di stragi così estese da richiedere il seppellimento dei cadaveri in apposite fosse comuni. E una “organizzazione non governativa” americana ha addirittura fornito le immagini che avrebbero inoppugnabilmente provato l’abiezione del regime libico. Peccato che non si trattasse di fosse comuni ad hoc, ma di regolari seppur numerose sepolture effettuate nel cimitero tripolino di Sidi Hamed. Qualcuno, addirittura, ha ipotizzato che le immagini potessero riferirsi alla sepoltura delle vittime del naufragio di una imbarcazione di “clandestini” diretta in Italia.

Comunque, al di là di tutto, il succo della storia si può condensare in poche battute: l’Italia aveva un canale privilegiato che le assicurava condizioni ottimali di accesso al mercato petrolifero libico; l’America (d’accordo con l’Inghilterra) ha deciso di impadronirsi di questo mercato; la Francia, anch’essa decisa a soffiarci quel mercato, ha cercato di giocare d’anticipo. L’Italia, infine, non soltanto si è fatta fregare, ma si è affannata a scendere anch’essa in guerra; non in una guerra qualunque, ma in una guerra che mira a colpire i suoi interessi per favorire quelli di americani, inglesi e francesi.

Ma di questo parleremo nel prossimo numero.



L’Opinione

di Michele Rallo


L’ITALIA È IN GUERRA …

E A DIFENDERE LA SICILIA

È RIMASTO SOLO BOSSI


[da “Trapani OK”, 27 aprile 2011]


Non siamo ipocriti: quella contro la Libia è una guerra in piena regola, una delle tante guerre che in questi anni hanno insanguinato il Mediterraneo e il Medio Oriente per imporre la pax americana ai popoli di quelle regioni: dall’Irak al Kosovo, dalla Somalia all’Afghanistan. Questa guerra – cui noi come sempre partecipiamo obbedienti – ha tuttavia una particolarità: è diretta non soltanto a colpire il nemico di turno della prepotenza statunitense, ma anche a colpire la stessa Italia, “colpevole” di aver fino ad ora potuto approvvigionarsi al conveniente mercato petrolifero libico, senza pagare i prezzi più alti pretesi dalle multinazionali anglosassoni.

Berlusconi – si sussurra negli ambienti “bene informati” – non avrebbe voluto partecipare a questa guerra contro gli interessi italiani, ma è stato costretto a farlo. L’unico “sconto” praticatogli è stato quello di non chiedere all’Italia una partecipazione attiva ai bombardamenti ma soltanto di mettere a disposizione le basi da cui far decollare i bombardieri della NATO. Ma, poiché Gheddafi non sembra disposto ad eclissarsi come un Mubarak qualunque, ecco che all’Italia è stato chiesto sempre di più: prima l’invio di “consiglieri” per addestrare le truppe del malconcio partito antigheddafiano; e, adesso, la partecipazione diretta ai bombardamenti di obiettivi militari libici. Quindi, guerra per guerra, senza neanche quel velo di ipocrisia che fino ad ieri ammantava l’aggressione diretta contro uno Stato sovrano.

Sembra, apprendiamo dai giornali di ieri, che il nostro premier sia stato raggiunto da una telefonata del Premio Nobel per la pace Barak Obama, il quale avrebbe ricordato al cavaliere che il dovere dell’Italia è di prendere parte attiva all’aggressione contro la Libia. E il Berlusca ha chinato disciplinatamente la testa. Avrebbe potuto fare come Craxi nel 1985, all’epoca della crisi di Sigonella, quando il tanto vituperato leader socialista ebbe il fegato di sbattere il telefono in faccia al Presidente americano Reagan. Altri tempi, altre situazioni, altri uomini al governo e altri uomini all’opposizione.

L’Italia dovrà dunque pagare un costo altissimo a questa nuova guerra americana. E la Sicilia un costo ancora più alto. Siamo noi, infatti, la prima linea del fronte antilibico; siamo noi la base da cui decollano i bombardieri; siamo noi i destinatari dell’ondata minacciosa di una immigrazione incontrollata e incontrollabile; siamo noi che pagheremo con la chiusura dei nostri aeroporti civili, con la falcidia del turismo, con i pescherecci sequestrati, con la crisi di interi comparti economici. Siamo noi che – se la situazione dovesse precipitare – potremmo trovarci a sostenere l’impatto di una eventuale reazione armata: convenzionale o terroristica.

E, di fronte a tutto ciò, chi ci difende? Chi ha il coraggio di opporsi sia alla guerra che ad una invasione mascherata da immigrazione? PDL e PD fanno a gara a chi è più filoamericano. Dei finiani meglio non parlare. La sinistra più estrema (rossa o viola) prende le distanze dalla guerra ma è favorevole alla cosiddetta “accoglienza”. L’unico ad essere contrario sia alla guerra che alla invasione magrebina, e quindi l’unico a difendere gli interessi reali della Sicilia in questo assurdo contesto bellico, è il leader della Lega Nord, Umberto Bossi. Mi costa dirlo, mi costa tremendamente, ma è così.



L’Opinione

di Michele Rallo


MA QUANTO CI COSTA

LA GUERRA IN LIBIA?


[da “Trapani OK”, 24 giugno 2011]


Le guerre costano. Una volta, quando i Papi volevano promuovere una Crociata, si davano prima daffare a raccoglier fondi. Imperatori, sovrani, pretendenti e ricchi feudatari erano invitati non soltanto a fornire uomini e cavalli (cosa di per sé costosissima), ma anche a metter mano alla borsa per finanziare la santa impresa. In compenso, veniva loro offerta una robusta raccomandazione per ottenere un posto privilegiato in Paradiso.

Oggi le cose non sono granché cambiate. Le guerre costano sempre tanto. E quella specie di papa laico che è il Presidente degli Stati Uniti d’America bussa a quattrini esattamente come il Santo Pontefice di medievale memoria. Naturalmente, qualche differenza c’è. Non si usa più versare fiorini e marenghi nelle casse benedette, preferendosi oggi spostare qualche posta nei bilanci degli Stati e rimpinguare determinati capitoli. Non si mandano più cavalieri e picchieri in Terra Santa, ma si inviano F-16 e Tornado a bombardare i paesi da convertire alla fede democratica.

Un’altra differenza attiene alla sfera intima dei pii contribuenti alle crociate di ieri e di oggi. Ieri, infatti, i potenti che volevano salvarsi l’anima si ponevano alla testa dei loro eserciti, e taluni davano anche prova di coraggio e di valore. Vedi, per esempio, quel Riccardo Cuor di Leone che era tanto caro al leggendario Robin Hood. Il potente di oggi, invece, non ha bisogno di fare l’eroe: offre un sostegno “politico” alla crociata del momento, e poi si limita a recarsi di tanto in tanto a consumare un rancio cameratesco con “i nostri ragazzi” al fronte, magari sotto l’occhio benevolo delle telecamere della CNN.

Ma la differenza fondamentale è un’altra, ed è proprio di natura economica. Nel Medio Evo i potenti attingevano si alle casse pubbliche, ma anche e forse soprattutto alle proprie. Aprivano i forzieri non soltanto per contribuire all’Obolo di San Pietro, ma anche per arruolare eserciti privati, per armarli, per far loro attraversare il Mediterraneo. I potenti di oggi, invece, partecipano alle crociate di papa Obama a spese dei contribuenti, senza bisogno di intaccare il loro personale gruzzolo.

Prendete quest’ultima guerra, per esempio, la guerra per aprire i rubinetti del petrolio libico ad americani ed inglesi (e per chiuderli a noi). Sapete quanto costa all’Italia questa stupidissima guerra? Quasi 8 milioni di euro al giorno, vale addire 15 o 16 miliardi delle nostre mai abbastanza rimpiante lire. Nei primi tre mesi di “missione umanitaria” – ci informa una nota del Centro Studi Giuseppe Federici – abbiamo già speso 700 milioni di euro (1.400 miliardi del “vecchio conio” come direbbe Bonolis) e, se continua di questo passo, alla fine dell’anno saremo arrivati ad elargire a pro dei poveri americani qualcosa come 2,5 miliardi di euro, ovvero 5.000 miliardi delle vecchie lire.

Tutto ciò, mentre l’Unione Europea ci invita a risparmiare su pensioni, sanità, scuola e quant’altro. E senza neanche promettere il Paradiso a Berlusconi!



L’Opinione

di Michele Rallo


LA VOLTA DELLA SIRIA:

COME SI FABBRICA

UNA RIVOLTA “SPONTANEA”


[da “Trapani OK”, 9 giugno 2011]


Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del potere sovietico, la promozione “della libertà e della democrazia” ha trovato nuovi importanti strumenti di penetrazione in tutti i paesi del mondo. Si tratta di alcuni istituti e fondazioni che dispongono di bilanci miliardari e che spesso fanno capo a strani filantropi. Si va dalla Albert Enstein Institution di Gene Sharp all’Open Society Institute di George Soros (quello che ha guadagnato 400 miliardi con la speculazione contro la lira nel 1992), passando per l’International Center on Non Violent Conflict di Peter Ackerman ed altri minori.

Sono state – in varia misura – queste organizzazioni (che si sono aggiunte alle tradizionali agenzie semiufficiali con le quali gli USA condizionano la politica mondiale) ad aver determinato le cosiddette “rivoluzioni colorate” che negli anni scorsi hanno investito vari paesi, soprattutto esteuropei; “rivoluzioni” che affermavano di voler difendere la democrazia e i diritti umani a tutte le latitudini, ma che hanno portato innanzitutto alla affermazione di nuove classi dirigenti di sicura fede filoamericana. È stato il caso della Otpor in Serbia (2000), della “rivoluzione delle rose” in Georgia (2003), della “rivoluzione arancione” in Ucraina (2004), della “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan (2006). Non ci sono ancora riscontri precisi, ma sono pronto a scommettere che le varie “rivoluzioni dei gelsomini” che in queste settimane interessano il mondo arabo siano – in tutto o in parte – ascrivibili alle medesime organizzazioni filantropiche.

Come funziona la cosa? Ce lo spiega un anticonformista ricercatore italiano, Gaetano Colonna, che cita un articolo del giornalista russo Vlaceslav Nikonov: «Una partita in sei mosse: con la prima, il paese viene dichiarato non libero da una delle organizzazioni internazionali americane, come la Freedom House (…); nella seconda gli USA e le organizzazioni internazionali allineate dichiarano di intervenire in nome del loro diritto-dovere di instaurare la democrazia, attivando nel frattempo movimenti come Otpor; poi, terza fase, questi movimenti, anche se minoritari, vengono presentati come “il vero portavoce della volontà e degli interessi di gran parte della popolazione”; le manifestazioni provocheranno, nella quarta fase, l'intervento delle forze dell'ordine che forniranno così “un'ottima occasione per dimostrare il grado di ira popolare contro il regime e la mancanza di libertà dell’opposizione”; in caso di elezioni, poi, se il risultato non sarà conforme a quanto desiderato, si metterà in dubbio “la capacità del sistema elettorale di assicurare un conteggio dei voti imparziale ed accurato”; il che condurrà infine, grazie ad un monitoraggio internazionale, alle conclusioni auspicate.»

L’articolo di Nikonov risale al 2007, ma vedete se non sembra scritto oggi, possibilmente dopo aver visto l’ultimo servizio televisivo sulla “rivolta popolare” in Siria. È, comunque, un articolo da conservare. Magari per tornare a leggerlo in un futuro più o meno prossimo, quando una rivoluzione di un qualche colore scoppierà in Iran. Con conseguenze imprevedibili.



Rievocazioni

di Michele Rallo


ANCHE SE

NON CE NE SIAMO ACCORTI …

QUALCUNO PREPARA LA

TERZA GUERRA MONDIALE


[da “La Risacca”, gennaio 2012]


DALLE SPEDIZIONI PUNITIVE CONTRO AFGANISTAN E IRAQ ALLE “PRIMAVERE ARABE”, ALL’AGGRESSIONE CONTRO LA LIBIA, AI SANGUNOSI DISORDINI IN SIRIA, ALL’EMBARGO ALL’IRAN: TANTI EPISODI CHE SEMBRANO PRELUDERE AD UNA PROVA DI FORZA NEL MEDIO ORIENTE. MA COSA SUCCEDERÀ SE LA RUSSIA E LA CINA NON RESTERANNO A GUARDARE?


Dopo aver fatto due guerre mondiali per tentare di impadronirsi dei mercati europei, dopo essere riusciti a mettere temporaneamente fuori combattimento l’altra “superpotenza”, cioè la Russia, dopo aver imposto le loro regole economiche – quelle della “globalizzazione” – a quasi tutto il mondo civile, dopo tutto questo (e scusate se è poco) gli Stati Uniti d’America non sono ancòra padroni del mondo. L’americanizzazione dell’Europa (con i parametri di Maastricht e la dittatura dell’euro) si è rivelata un fallimento, la Russia rialza la testa, la Cina imperversa a tutte le latitudini, e perfino la fedelissima America Latina dà segni crescenti di insofferenza al colonialismo nordamericano. Il progetto di far seguire al bipolarismo USA-URSS il dominio assoluto della repubblica stellata (e della sua economia) sul mondo intero ha incominciato a perdere colpi durante la presidenza di George Bush jr. e adesso, nell’epoca di Obama, sembra avviarsi verso un completo fallimento.

Secondo taluni analisti, l’unico mezzo che gli USA hanno per sovvertire questa situazione è quello di provocare una guerra di vaste dimensioni che possa portare ad un generale rimescolamento di carte in alcuni “teatri” di vitale interesse: il Medio Oriente, innanzitutto, al confine tra Africa ed Asia; il Mediterraneo, al confine tra Europa ed Africa; ed il Caucaso, alla periferia della sempre temibile Russia. Secondo l’esperto croato Viktor Burbaki (che leggo sul sito dell’autorevole rivista “Geopolitica”) «presumibilmente gli epicentri dei conflitti saranno nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale post-sovietica».

Attenzione: si tratta di teorie, non di certezze; e speriamo che si tratti di teorie sbagliate, destinate ad essere smentire dai fatti. Tuttavia, se si ricollegano tanti fatti noti e meno noti degli ultimi anni, ci si rende conto che i timori di quanti paventano una nuova grande guerra non sono del tutto campati in aria. Senza andare troppo indietro nel tempo, iniziamo dagli attentati dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle. Tralasciamo di addentrarci nei meandri delle versioni alternative alla versione ufficiale, e andiamo alla sue conseguenze pratiche: l’attacco statunitense all’Afganistan e all’Iraq, con obiettivi dichiarati – rispettivamente – la distruzione dei “santuari” di al-Qaeda (in Afganistan) e quella degli arsenali di “armi di distruzione di massa” (in Iraq).

Tutto falso. In Afganistan gli americani volevano semplicemente mettere lo zampino in un paese posto immediatamente a sud dell’area centroasiatica di obbedienza russa; ed in Iraq volevano togliere di mezzo un regime laico che fungeva da “tappo” al dilagare del fondamentalismo islamico nella regione. Bin Laden (o chi si faceva passare per lui) era lasciato libero di rintanarsi nella “zona tribale” al confine col Pakistan, mentre in Iraq non si riusciva a trovare neanche l’ombra di quelle “armi di distruzione di massa” di cui si favoleggiava nelle cancellerie occidentali. Intanto al-Qaeda trovava un compiacente megafono per i suoi proclami terroristici nella televisione panaraba “Al-Jazeera”, che trasmette – guarda caso – dal Qatar, la piccola monarchia assoluta della famiglia Al-Thani che è il più fedele alleato degli USA nell’area del Golfo Persico.

Lo spazio tiranno mi costringe a saltare tanti eventi (dalla guerra sfiorata nel 2008 fra la Russia di Putin e la Georgia filoamericana, al tentativo di far scoppiare la rivoluzione in Iran nel 2009) per giungere direttamente ai fatti dei mesi scorsi. E mi riferisco alla cosiddetta “primavera araba” del 2011 ed alla guerra di aggressione contro la Libia. Eventi – tutti – che hanno portato alla fine di regimi laici (quelli di Mubarak in Egitto, di Ben Alì in Tunisia, di Gheddafi in Libia) ed all’emergere di forze islamiste in tutta la riva sud del Mediterraneo. Adesso l’obiettivo si è spostato un po’ più ad est, verso il “blocco sciita” che si oppone al dilagare del fondamentalismo sunnita di al-Qaeda: l’Iran, “grande potenza” regionale e casamadre dello sciismo; la Siria, a maggioranza sunnita ma governata dal laico filo-sciita Al-Assad; con pesanti implicazioni anche per gli equilibri interni di Iraq e Libano, paesi con una forte componente religiosa sciita.

Il sistema è sempre lo stesso: mobilitare le forze di opposizione attraverso internet (sistema ottimamente padroneggiato dai servizi segreti americani e israeliani), spingerle alla rivolta di piazza e poi alla rivolta armata, e infine – quando i governi legittimi si difendono con la brutalità di rito – invocare la riprovazione del mondo civile verso regimi descritti come tirannici e sanguinari. Al centro del mirino, in questo momento, c’è la Siria. Non che Assad sia un agnellino, ma va detto che la responsabilità di quanto sta accadendo non è sua, ma dei fondamentalisti islamici che spingono alla rivolta la popolazione sunnita, e di chi sta dietro ai fondamentalisti islamici.

Ma l’obiettivo vero è l’Iran. Fallito il tentativo di fare anche lì una rivoluzione via internet, si sta tentando di strangolarlo economicamente. Se anche questo disegno non sortirà i risultati sperati, allora si potrebbe invocare la minaccia di un arsenale nucleare (in verità assai poco temibile o addirittura inesistente, come quello chimico-batteriologico a suo tempo inventato per l’Iraq) e si potrebbe giustificare – Dio non voglia – un attacco “preventivo” condotto dagli israeliani o dagli americani stessi.

È a quel punto che si aprirebbero gli scenari più pericolosi: Russia e Cina, infatti, non potrebbero assistere passivamente alla distruzione dell’Iran – loro importantissimo partner commerciale e alleato – e potrebbero essere spinte ad intervenire. Ecco l’evenienza che potrebbe preludere ad una terza guerra mondiale.

Ma – voglio tranquillizzare tutti – la mia è solamente una ipotesi di studio. Spero che la ragionevolezza possa prevalere, che si smetta di fomentare rivolte religiose (come nel caso della Siria), che si smetta di decretare l’assedio economico di intere nazioni (come nel caso dell’Iran), che si smetta di contestare la validità di risultati elettorali non graditi (come nel caso addirittura della Russia). Spero che possa prevalere il buon senso, la moderazione, la tolleranza, e che i popoli possano essere lasciati liberi di decidere da soli del loro destino. Lo spero per i popoli del Medio Oriente. E lo spero anche per i popoli europei: che possano riappropriarsi della loro sovranità e scrollarsi di dosso la tirannia della speculazione finanziaria.



Le Opinioni Eretiche

di Michele Rallo


SIRIA E IRAQ:

LA CROCIATA

CONTRO GLI ARABI

LAICI E SCIITI


[da “Social”, 20 giugno 2014]


Che cosa sta succedendo in Iraq? Semplice: con poche varianti, la stessa cosa che sta avvenendo in Siria. Continua, cioè, la sanguinosa manovra per eliminare fisicamente gli arabi laici e, con essi, le due comunità religiose ostili al fondamentalismo jihadista: i musulmani sciiti ed i cristiani orientali. È una guerra sporca, sporchissima, lorda di sangue, di petrolio e dell’inchiostro bugiardo della stampa occidentale, che uccide quotidianamente la verità facendo passare quelle nefande guerre d’aggressione per benemerite “rivolte democratiche” contro regimi impopolari perché dittatoriali. Ma, di grazia, qualcuno vuole citarmi un solo Paese arabo che sia retto da un sistema autenticamente democratico?

Sono due guerre – quella dell’Iraq e soprattutto quella della Siria – che tanti punti in comune hanno con quella che, tre anni or sono, fu mossa contro la Libia di Gheddafi, armando – a spese delle monarchie petrolifere del Golfo e dei servizi occidentali – un esercito mercenario di sedicenti “ribelli” (peraltro in larga parte formato da fanatici fondamentalisti) che in poche settimane distrusse completamente la vita civile e l’economia di una delle nazioni più floride del mondo arabo.

Le prove generali – a onor del vero – erano già state fatte, otto anni prima, contro la prospera repubblica laico-nazionalista dell’Iraq. Il suo Presidente-dittatore Saddam Hussein era stato accusato di essere il protettore dei terroristi sunniti di al-Qaeda e di detenere grandi arsenali di “armi di distruzione di massa”. Tutti sanno che le armi di distruzione di massa non furono trovate, per il semplice fatto di essere state soltanto un’invenzione dei servizi segreti americani.

Quel che molti ignorano, invece, è che Saddam Hussein contrastasse i fondamentalisti religiosi di al-Qaeda, e che addirittura fosse un elemento essenziale di quella “cintura sanitaria” che impediva al terrorismo jihadista di penetrare nelle società arabe progredite, ivi comprese quelle dei Paesi nostri dirimpettai nel Mediterraneo. Queste cose, però, erano perfettamente note a tutti gli “addetti ai lavori”, ivi compresi – naturalmente – gli eccelsi strateghi americani; anche se questi, ufficialmente, si affannavano a proclamare che quella di Bush era una benemerita guerra “contro il terrore”. Non era vero niente, anzi era vero l’esatto opposto: era – volontariamente o involontariamente – una guerra “per il terrore”, per consentire ai qaedisti di dilagare in tutto il mondo arabo e, come conseguenza diretta, di tenere sotto scacco l’Europa.

Perché tutto ciò? Perché – è la mia personalissima opinione “eretica” – perché solamente un’Europa che si sentisse minacciata dal fondamentalismo islamico sarebbe stata disposta a sbracarsi ancor di più di fronte ai padroni americani, accettando non soltanto il vassallaggio militare di una NATO ormai senza più ragion d’essere, ma anche quello economico (che sta materializzandosi proprio in queste settimane) di una zona atlantica di libero scambio che è utile solo agli statunitensi.

Certo – è sempre l’eretico che parla – non posso credere che gli spioni della CIA abbiano potuto pensare, anche soltanto per un attimo, che il laicissimo Saddam Hussein fosse alleato del fondamentalista Bin Laden. Così come non posso credere che gli spioni di cui sopra non avessero previsto la dissoluzione dell’Iraq, una volta abbattuto il regime laicista che era faticosamente riuscito a tenere unito il Paese. L’Iraq – sia detto per inciso – è uno Stato artificiale, creato a suo tempo dagli inglesi per motivi eminentemente petroliferi; creato – si badi bene – costringendo ad una convivenza forzata la regione arabo-sunnita di Baghdad, quella sciita di Bassora e quella kurda di Mosul, per tacere della (un tempo) numerosa comunità arabo-cristiana.

Gli strateghi americani – dicevo – dovevano ben sapere che l’Iraq sarebbe andato in frantumi e sarebbe stato preda delle bande fondamentaliste. Esattamente come la Libia, otto anni appresso. Esattamente come si è tentato di fare in Siria, poco dopo. Esattamente come si tenta di fare in questi giorni nuovamente in Iraq. Lì, come in Siria, la barbarie avanza. Ed a farne le spese sono in primo luogo i cristiani: uccisi, torturati, bruciati vivi nelle chiese e – i più fortunati – espulsi dai loro paesi e costretti all’emigrazione forzata.

Un’Europa imbecille, intanto, fa il tifo per gli “eserciti dei ribelli” e lancia gridolini di gioia per ogni arretramento delle “milizie del regime”, obbedendo ai fogli d’ordine americano-saudito-israeliani. Al contempo, gli Stati Uniti – che nel 2003 rasero al suolo l’intero Iraq – hanno fatto sapere che questa volta non invieranno soldati e non bombarderanno nessuno; tutt’al più, interverranno con i droni, gli aerei senza pilota. E che il governo sciita dell’Iraq (alleato di quello dell’Iran) si arrangi come può per difendersi dai terroristi. Le guerre “contro il terrore” non si fanno più, le bombe “intelligenti” sono finite. Verrebbe da dire che oggi si usano soltanto le bombe cretine, quelle tanto care agli americani e a chi dà loro credito.

Il Premio Nobel per la pace Barack Obama è stato chiaro, come si conviene ad un perfetto pacifista a stelle e strisce. Le guerre si fanno soltanto contro i cattivi: il Presidente siriano Assad è certamente un cattivo, perché rifiuta di consegnare il suo Paese agli sceicchi sunniti; gli iraniani sono cattivi per antonomàsia, perché stanno antipatici a Israele; e il più cattivo di tutti è certamente Putin, che non vuole vendere il gas a metà prezzo all’Ukraina che gli americani gli hanno strappato giocando sporco. Certo, tutto sarebbe stato più facile se, qualche mese fa, i russi avessero consentito al Presidente abbronzato di radere al suolo la Siria di Assad, ma quel dittatoraccio di Putin ha avuto il cattivo gusto di mettersi di traverso. Pazienza, adesso gli americani dovranno far finta di avversare i terroristi del fantomatico ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), e i loro amici europei dovranno far finta di crederci.

Il tutto – a modesto parere dello scrivente – stando bene attenti a non intralciare il disegno del “Grande Medio Oriente”, teorizzato da circoli sauditi e israeliani, le cui spire dovrebbero allargarsi a nord, fino al Caucaso ed al Mar Nero. Un Grande Medio Oriente con la Russia e l’Iran fuori gioco e, comunque, non in grado di fare concorrenza al petrolio saudita, né al gas “di scisto” americano e, dopo l’entrata in produzione del nuovissimo giacimento Leviathan, neanche al gas israeliano che – ci scommetto – prenderà il posto di quello libico diretto in Europa.

Intanto, siamo tutti seduti su una polveriera. Anzi su due polveriere. Una è l’Iraq, l’altra è l’Ukraina. Speriamo che non ci siano scintille.



Le Opinioni Eretiche

di Michele Rallo


IL CALIFFATO ALLE PORTE:

E QUALCUNO

HA VISTO LA NATO?


[da “Social”, 20 febbraio 2015]


Ci siamo: le luttuose bandiere dell’ISIS sventolano sul golfo della Sirte e avanzano verso Tripoli. Ad uscire vincitore nel tribale tutti-contro-tutti seguìto all’assassinio di Gheddafi è stato infine il gruppo più forte, perché meglio armato; e meglio armato perché più ricco; e più ricco perché Qualcuno gli dà i soldi. D’altronde, l’intera vicenda della infame aggressione alla Libia laica e anti-fondamentalista è stata tutta una storia di soldi, un fiume di soldi con cui sono stati creati, reclutati, stipendiati e armati gli “eserciti liberatori” che nel 2011 sono stati lanciati contro le “milizie del regime”. [i virgolettati – naturalmente – sono ispirati al linguaggio dei media occidentali del tempo] E quando, nonostante i petrodollari, i gloriosi eserciti liberatori continuavano a prendere batoste dalle vituperate milizie del bieco regime, ecco il provvidenziale “aiutino” dell’Occidente democratico. Prima i bombardamenti ordinati dal marito di Carla Bruni, poi quelli della NATO decretati dal Premio Nobel “per la pace” Barak Obama, poi quelli addirittura dell’amica Italia, autorevolmente sollecitati da un Napolitano il quale tuonava: «a Gheddafi non sarà consentito di sparare sul suo popolo.»

Ma recriminare serve a ben poco. È successo quel che è successo, e adesso siamo a questo punto: con la Libia proclamata una provincia del Califfato dell’ISIS, con l’esercito jihadista accampato a poche miglia da noi, con i barconi di migranti lanciati verso le nostre coste con evidente intento destabilizzatore, con gli oleodotti in fiamme (altro che forniture di gas per l’Italia!), e con certi “immigrati di seconda generazione” (diventati cittadini europei in forza dello ius soli) che operano in guisa di quinte colonne e disseminano attentati dalla Francia al Belgio e alla Danimarca.

Né si creda che il problema riguardi soltanto noi. Se l’ISIS dovesse vincere la sua “guerra di Libia” sarebbe l’intero fianco sud dell’Europa ad essere minacciato: dalla penisola Iberica alla penisola Balcanica, con l’Italia in prima linea – certo – ma con la Francia che ci segue a ruota. E c’è di più: la Libia non è un traguardo per il Califfato, ma un trampolino da cui spiccare il balzo verso i confinanti. Verso l’Egitto, ad est; verso la Tunisia e l’Algeria, ad ovest; verso l’Africa nera, a sud, verso il Ciad e il Niger che confinano – non si dimentichi neanche questo – con la Nigeria minacciata da Boko Haram.

Questo è lo scenario da brividi che i dilettanti americani (con qualche Pierino europeo al sèguito) ci hanno preparato. Perché? Perché non capiscono nulla di geopolitica? Forse. Perché obbediscono ciecamente ai loro alleati mediorientali? Forse. Per la precisa volontà di tenere l’Europa legata ad una NATO che ha ormai soltanto una funzione coloniale? Non vorrei crederlo. Per un mix di tutte queste motivazioni? È probabile.

Sia come sia, è evidente – a questo punto – che qualche cosa si dovrà pur fare per scongiurare che lo scenario di cui sopra abbia realmente a configurarsi. Che cosa? L’Italia – dicono i nostri governanti – «è pronta a fare la sua parte». Ma – aggiungono sùbito dopo – «nel quadro della legalità internazionale». La qualcosa significa – tradotto per i non addetti ai lavori – dopo una convocazione dell’assemblea dell’ONU, dopo una lunga e approfondita analisi dei fatti, dopo la determinazione dell’invio di una forza militare (probabilmente con còmpiti rigorosamente limitati e circoscritti), dopo aver faticosamente raggiunto un accordo sulla partecipazione dei vari contingenti nazionali, sulle catene di comando, eccetera. La qualcosa significa – traduco sempre per i non addetti ai lavori – che le truppe dell’ISIS avranno tutto il tempo di arrivare a Tripoli, forse anche a Tunisi. Nelle more, la Marina Militare italiana potrà ingannare il tempo andando a prelevare, fin sotto le coste libiche, i pattuglioni di profughi che gli jihadisti avranno deciso di mandarci incontro.

Ma – aggiungono i più duri fra i nostri governanti – «anche l’Europa dovrà fare la sua parte». Perché – precisano gli impavidi – «il problema non riguarda soltanto l’Italia». Bravi, questi campioni di coraggio, questi genii della politica, questi fulmini di alta strategia!

Nessuno tra di loro, però, si è azzardato anche soltanto a nominare gli unici che dovrebbero essere chiamati in causa: gli Stati Uniti e i vertici della NATO. Responsabili politici (i primi) e militari (i secondi) di quanto sta avvenendo in Libia. Eppure, basterebbe applicare oggi agli jihadisti libici il medesimo trattamento riservato quattro anni fa a Gheddafi, e il problema sarebbe rapidamente risolto.

Ma, dimenticavo. La NATO è troppo impegnata ad est – dalle parti dell’Ukraina – per prestare attenzione a quanto sta avvenendo a sud. E i nostri governanti non hanno certo il cattivo gusto di ricordare all’America quali siano i doveri di un’alleanza. Ammesso che la NATO rappresenti per noi un’alleanza, e non uno strumento di dominazione imperiale.



Le Opinioni Eretiche

di Michele Rallo


GUERRE E DENARI:

TUTTO PRONTO

PER LA PROSSIMA

CAMPAGNA DI LIBIA


[da “Social”, 12 febbraio 2016]


Forse, qualcuno fra i miei lettori più attenti ricorderà la conclusione sibillina di un vecchio articolo. Si era nell’ottobre dell’anno scorso, e il pezzo era dedicato alla mastodontica esercitazione NATO “Trident Juncture”. In chiusura, dopo aver dato notizia dell’assunzione in Goldman Sachs dell’ex Segretario generale della NATO, terminavo: «Quali i punti di contatto – si chiederanno i lettori – tra la sfera militare e quella finanziaria? Ci sono, ci sono questi punti di contatto. E ne avremo conferma fra qualche mese, probabilmente in Libia.»

Qualche mese è passato, ed è giunta quella che a me pare proprio una conferma. Malgrado le grandi attese della vigilia, il caos seguìto all’assassinio di Gheddafi ha favorito gli alleati mediorientali degli americani (sauditi, quatarini, turchi, eccetera), ma ha lasciato in sospeso qualche affaruccio delle grandi banche di Wall Street. In particolare, la Goldman Sachs – to’ chi si rivede! – sembra che si agiti parecchio, soprattutto nelle ultime settimane, da quando appaiono in discesa le quotazioni di Ilary Clinton nella corsa alla Casa Bianca. Del rapporto fra la Clinton e la massima banca d’affari del pianeta – per inciso – parlerò in una prossima occasione.

Tornando alle vicende libiche, comunque, la banca di Manhattan – lo ricordava Manlio Dinucci sul “Manifesto” – ha già avuto da queste il suo bel guadagno, impadronendosi di 1,3 miliardi di dollari di fondi statali che le erano stati affidati dal bieco regime, adducendo perdite la cui autenticità sarebbe utile poter verificare. Adesso, sembra che il prestigioso istituto finanziario sia particolarmente inquieto per i futuri equilibri interni alla Central Bank of Libya, cui – una volta ripristinato un minimo di normalità – dovrebbe spettare il còmpito di gestire il fiume di denaro delle rendite petrolifere e di indirizzare gli investimenti miliardari dei “fondi sovrani” libici.

E ad essere inquieta non è soltanto la Goldman Sachs, ma l’intero apparato statale, finanziario e militar-industriale della nostra “grande alleata”. Il còmpito che Qualcuno aveva pensato per l’ISIS era quello di distruggere Siria e Iraq (e poi Libano e forse Giordania), per ridisegnare i confini del Medio Oriente secondo i desiderata dei nuovi imperialismi regionali. L’intervento della Russia in Siria ha però sparigliato le carte, obbligando anche gli americani a fare qualcosa di concreto in Iraq. Ecco, dunque, che il simil-Stato jihadista ha cominciato a spostare uomini e mezzi in Libia; nella previsione di essere costretto a cercare riparo dalle parti di Tripoli. Ed anche questo è un fatto (assolutamente non previsto) che obbliga gli americani a dare un segno di vita, pena la fine di quel loro strumento coloniale che è l’Alleanza Atlatica. Come giustificare agli occhi degli alleati – infatti – la guerra della NATO nel 2011 contro un Gheddafi che non minacciava nessuno, mentre la Libia di oggi potrebbe diventare sede di un Califfato che vuol far la guerra all’Italia?

Ecco che – in tali frangenti – potrebbe tornare utile un alto papavero NATO in Goldman Sachs, soprattutto trattandosi di un personaggio come l’ex Segretario generale Anders Fogh Rasmussen. Già primo ministro di Danimarca, il tale è noto per essere totalmente appiattito sulle posizioni americane; al punto da essere anche fautore del TTIP, il trattato di “libero scambio” – in itinere – con cui gli USA tentano di colonizzare definitivamente l’economia europea. In campo militare, invece, l’ardimentoso personaggio si è illustrato in due manovre parimenti nefaste per gli interessi europei: le misure bellicose e provocatorie contro la Russia per la questione ucraina e – guarda un po’! – l’aggressione alla Libia di Gheddafi. Ecco che, in vista di una nuova campagna tripolina, il passaggio di Rasmussen dalla NATO a Goldman Sachs potrebbe rivelarsi utile. Anche per tenere al loro posto gli italiani, nel caso che quel mattacchione di Renzi si montasse la testa per il fatto di essere stato incaricato di “guidare” la spedizione punitiva sulle coste della Sirte.

In fondo, la guerra del 2011 è stata fatta anche per privare l’Italia del suo rapporto privilegiato con la Libia. Ora, la nuova guerra non avrà certo il còmpito di riportare indietro le lancette dell’orologio. Il Vispo Tereso è avvisato: non avrà un nuovo Rais cui baciare la mano, come così bene sapeva fare un suo predecessore. Al nuovo Presidente del Consiglio italiano – più modestamente – spetterà soltanto di mettersi un pennacchio in testa e di giocare ai soldatini. Per le cose serie, c’è già chi ci pensa.



Le Opinioni Eretiche

di Michele Rallo


LIBIA: QUAL’È

L’INTERESSE ITALIANO?

RESTARNE FUORI


[da “Social”, 11 marzo 2016]


Premetto di non essere un pacifista. Sono un uomo pacifico, cosa completamente diversa. E penso che, quando sia necessario, le guerre vadano fatte, senza tentennamenti e senza inutili piagnistei.

Ciò premesso, il mio modesto parere è che questa nuova guerra libica non vada fatta. O, meglio, che vada fatta da altri, non dall’Italia. Mi rendo conto che tale posizione potrebbe apparire contraddittoria, ma così non è. E cercherò di spiegarlo.

Senza voler andare troppo indietro nel tempo, bisogna risalire almeno ai fatti che sono stati la causa diretta degli eventi odierni, e cioè a quella stupida guerra d’aggressione condotta contro la Libia di Gheddafi nel 2011. Una guerra voluta dal marito di Carla Bruni per cercare di soffiare all’Italia il ruolo di interlocutore privilegiato e di principale partner economico della Libia, a cominciare – naturalmente – dai commerci petroliferi. L’iniziativa del personaggino francese – va detto – non era isolata, ma andava a saldarsi con due vaste operazioni (più o meno sotterranee) che erano in atto sullo scacchiere internazionale: l’offensiva politica del fondamentalismo islamico sunnita contro i regimi arabi laici o sciiti, sostenuta dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri potentati petroliferi del Medio Oriente; e l’agitazione delle “primavere arabe” che ufficialmente mirava a democratizzare i paesi dell’area, sostenuta dagli Stati Uniti e dai sodali inglesi e israeliani. In tale contesto, la megalomania del piccolo francese servì a cementare tutti quegli interessi. A spese, naturalmente, degli interessi italiani, che il Presidente del Consiglio del tempo – Silvio Berlusconi – non seppe difendere con adeguata energia; forse perché prigioniero di una certa cultura “occidentale” che vede negli americani i “buoni” e i “liberatori”. Certo, se al posto di Berlusconi ci fosse stato Bettino Craxi – il Craxi di Sigonella – le cose sarebbero andate diversamente; e almeno l’Italia non sarebbe stata compartecipe di una guerra contro i suoi stessi interessi. Altri tempi, comunque, e soprattutto altri uomini!

Va anche detto che, oltre a Sarkozy, l’infame guerra del 2011 ebbe un altro padrino, anzi un’altra madrina: Ilary Clinton, al tempo Segretario di Stato (cioè Ministro degli Esteri) degli USA. Fu lei – anche contro il parere del Pentagono – ad insistere con l’amletico Obama perché l’America intervenisse nel conflitto, oscurando l’iniziativa francese che – altrimenti – rischiava di precostituire una situazione penalizzante per gli interessi americani. Interessi petroliferi, certo. Ma anche interessi finanziari, legati alla gestione degli utili miliardari della vendita del petrolio.

Sembra adesso che l’imprevisto arrivo dell’ISIS (dovuto al precipitare della situazione in Siria a sèguito dell’intervento russo) abbia messo in discussione i piani per la divisione delle spoglie libiche, che – si sussurra negli ambienti “bene informati” – prevedevano in origine la spartizione del paese in almeno due tronconi politici (la Tripolitania agli amici di turchi e sauditi, e la Cirenaica a mezzadria fra anglo-francesi ed egiziani) e in tre settori economici: le finanze agli americani, il gas agli stessi americani e ai cugini inglesi, il petrolio ai francesi della Total. Niente – naturalmente – per l’Italia; cui, per di più, sarebbe spettato di sopportare il peso del flusso migratorio basato in Libia.

Tutto ciò – lo ripeto – fino all’arrivo in Libia dell’ISIS. Arrivo che ha sparigliato le carte della prevista spartizione e – sembra – certe aspettative di alcune grosse banche d’affari americane; prima fra tutte la Goldman Sachs. Goldman Sachs che ha un rapporto molto stretto con Ilary Clinton (rieccola!) promotrice dell’intervento del 2011 e – stando alle ultime primarie – possibile futura Presidente degli USA.

Da quel momento, tutto è cambiato; anche per l’Italia. Prima ci si lasciava cuocere nel nostro brodo, si sorrideva quando il Califfo minacciava di issare la bandiera nera sul Colosseo, si scrollavano le spalle quando un milione di “rifugiati” si preparavano ad invadere il nostro paese. La NATO, così pronta e solerte nel bombardare Gheddafi e le “milizie del regime”, volgeva pudicamente lo sguardo altrove, dalle parti dell’Ukraina, con un’occhiatina vogliosa anche sulla Siria; mentre il suo Segretario generale Rasmussen, appena lasciato l’incarico, veniva assunto con compensi da capogiro proprio dalla Goldman Sachs.

Improvvisamente, tutto è cambiato. E – aggiungo – per fortuna. Adesso gli Stati Uniti vogliono debellare l’ISIS in Libia, e la cosa non può che farmi piacere. Ciò che non mi fa piacere, invece, è che gli americani vogliano – come diciamo noi – “vedersela dal lastrico”. Vogliano, cioè, limitarsi a sganciare bombe e missili da prudente distanza, mandando a combattere sul serio, con truppe di terra, gli europei: in particolare – ma quanto sono generosi! – gli italiani. Tanto, gli italiani sono i primi a dire yes quando i padroni schioccano le dita, arrivando al punto – lo ricordavo prima – di fare una guerra praticamente contro sé stessi. Il nostro “si” è dato per scontato, forse facendo affidamento anche sul carattere rodomontesco del nostro Presidente del Consiglio, il cui egocentrismo è stato sapientemente solleticato dall’offerta di fare – lui – il capo della coalizione di guerra. Il Vispo Tereso – si vede a occhio nudo – non sta più nella pelle al pensiero di fare lo Schwarzkopf della situazione, sfoggia la mimetica e si muove a perfetto agio fra generali e blindati. Sembra una caricatura del caricaturale Bush junior alla vigilia dell’invasione dell’Iraq.

L’impressione è che tutto sia già stato deciso. E, ad ogni buon conto, l’ambasciatore americano si incarica di ricordarcelo con la solita intervista al solito Corriere della Sera: l’Italia deve prendere “la guida dell’azione internazionale”, deve mandare 5.000 soldati in Libia, e deve schierarli nel settore di Tripoli. Sono sostanzialmente degli ordini, appena appena velati dal bon ton diplomatico.

Nei fatti, una trappola. Una trappola, perché gli americani butteranno le bombe e saranno liberi di andarsene quando meglio crederanno; mentre noi resteremo insabbiati nel deserto, nella parte del paese più ostica (e più povera di petrolio), facile bersaglio di una propaganda jihadista che ci additerà come i biechi colonialisti che sono tornati in Libia per continuare l’occupazione di cento e più anni fa. Una trappola, perché offriremo il destro all’ISIS per reagire, organizzando sul nostro territorio sanguinosi attentati in stile Bataclan.

Messo alle corde e conscio che questa volta non gli basteranno i voti di Verdini per decretare lo stato di guerra, il prode Renzi ha fatto mezzo passo indietro, dichiarando che l’Italia entrerà in guerra solo se a chiedercelo sarà il governo di unità nazionale che l’ONU sta tentando di far nascere dalla fusione di due governi fra loro nemici. Ma è chiaramente un espediente per prendere tempo. Il famoso governo di unità nazionale in Libia non lo vuole nessuno, a iniziare proprio dai due governi di Tripoli e di Tobruck che dovrebbero fondersi, e continuando con le altre entità amministrate da vari e contrapposti clan militarizzati: i Dawn, i Toubou, i Tuareg, la miriade di tribù minori (un centinaio circa) e, naturalmente, l’ISIS e i suoi diversi concorrenti della galassia jihadista (Ansar al-Sharia, eccetera).

Il governo di unità nazionale, quindi, non si farà. E, se si farà, sarà a rischio di rapida implosione, e comunque sarà visto dai libici come un’imposizione arrogante degli stranieri. Qualora l’Italia dovesse intervenire su invito di un siffatto governo, non v’è dubbio che incontrerà sul posto un’ostilità ancora più forte e generalizzata.

Stando così le cose, non vedo perché ad intervenire sul terreno dovremmo essere proprio noi, e cioè coloro contro i cui interessi fu organizzata la sporca guerra del 2011. Quella guerra (causa diretta del caos odierno) l’hanno prodotta americani, inglesi e francesi. E a rimediare, oggi, devono essere loro; anche perché loro si spartiranno soldi e petrolio. Non si può chiedere a noi, proprio a noi, di andare a togliere le castagne dal fuoco per lor signori, e magari anche per un’acida signora che vuol fare la presidentessa.







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