domenica 21 settembre 2014

Grandi strategie USA: "Attaccare l'ISIS per colpire la Cina"




Mentre l’Isis diffonde attraverso le compiacenti reti mediatiche
mondiali  le immagini della terza decapitazione di un cittadino
occidentale, suona un altro campanello di allarme: dopo essersi diffuso
in Siria e Iraq, l’Isis sta penetrando nel Sud-Est asiatico. Lo
comunicala Muir Analytics, società che fornisce alle multinazionali
«intelligence contro terrorismo, violenza politica e insurrezione»,
facente parte dell’«indotto»della Cia in Virginia, usata spesso dalla
casa madre per diffondere «informazioni» utili alle sue operazioni.

Campo in cui la Cia ha una consolidata esperienza. Durante le
amministrazioni Carter e Reagan essa finanziò e addestrò, tramite il
servizio segreto pachistano, circa 100mila mujaheddin per combattere le
forze sovietiche in Afghanistan. Operazione a cui partecipò un ricco
saudita, Osama bin Laden, arrivato in Afghanistan nel 1980 con migliaia
di combattenti reclutati nel suo paese e grossi finanziamenti.  Finita
la guerra nel 1989 con il ritiro delle truppe sovietiche e l’occupazione
di Kabul nel 1992 da parte dei mujaheddin, le cui fazioni erano già in
lotta l’una con l’altra, nacque nel 1994 l’organizzazione dei taleban
indottrinati, addestrati e armati in Pakistan per conquistare il potere
in Afghanistan, con una operazione tacitamente approvata da Washington.
Nel 1998, in una intervista a /Le Nouvel Observateur/, Brzezinski, già
consigliere per la sicurezza nazionale Usa, spiegò che il presidente
Carter aveva firmato la direttiva per la formazione dei mujaheddin non
dopo ma prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan per «attirare i
   russi nella trappola afghana». Quando nell’intervista gli fu chiesto
se non si fosse pentito di ciò, rispose: «Che cosa era più importante
per la storia del mondo? I taleban o il collasso dell’impero sovietico?».

Non ci sarebbe quindi da stupirsi se in futuro qualche ex consigliere di
Obama ammettesse, a cose fatte, ciò di cui già oggi si hanno le prove,
ossia che sono stati gli Usa a favorire la nascita dell’Isis, su un
terreno sociale reso «fertile» dalle loro guerre, per lanciare la
strategia il cui primo obiettivo è la completa demolizione della Siria,
finora impedita dalla mediazione russa in cambio del disarmo chimico di
Damasco, e la rioccupazione dell’Iraq che stava distaccandosi da
Washington e avvicinandosi a Pechino e Mosca. Il patto di
non-aggressione in Siria tra Isis e «ribelli moderati» è funzionale a
tale strategia (v. sul /manifesto/ del 10 settembre la foto
dell’incontro, nel maggio 2013, tra il senatore Usa McCain e il capo
dell’Isis facente parte dell’«Esercito siriano libero»).

In tale quadro, l’allarme sulla penetrazione dell’Isis nelle Filippine,
in Indonesia, Malaysia e altri paesi a ridosso della Cina – lanciato
dalla Cia attraverso una sua società di comodo – serve a giustificare la
strategia già in atto, che vede gli Usa e i loro principali alleati
concentrare forze militari nella regione Asia/Pacifico. Là dove,
avvertiva il Pentagono nel 2001, «esiste la possibilità che emerga un
rivale militare con una formidabile base di risorse, con capacità
sufficienti a minacciare la stabilità di una regione cruciale per gli
interessi statunitensi».

La «profezia» si è avverata, ma con una variante. La Cina viene temuta
oggi a Washington non tanto come potenza militare (anche se non
trascurabile), ma soprattutto come potenza economica (al cui
rafforzamento contribuiscono le stesse multinazionali Usa fabbricando
molti loro prodotti in Cina). Ancora più temibile diventa la Cina per
gli Usa in seguito a una serie di accordi economici con la Russia, che
vanificano di fatto le sanzioni occidentali contro Mosca, e con l’Iran
(sempre nel mirino di Washington), importante fornitore petrolifero
della Cina. Vi sono inoltre segnali che la Cina e l’Iran siano
disponibili al progetto russo di de-dollarizzazione degli scambi
commerciali, che sferrerebbe un colpo mortale alla supremazia statunitense.

Da qui la strategia annunciata dal presidente Obama, basata sul
principio (spiegato dal /New York Times/) che, in Asia, «la potenza
americana deve seguire i suoi interessi economici». Gli interessi Usa
che seguirà l’Italia partecipando alla coalizione internazionale a guida
Usa «contro l’Isis».
Manlio Dinucci
(Fonte: il manifesto)

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