mercoledì 7 novembre 2012

Bioregionalismo e spiritualità - Osservando la danza della Dea Madre




Caro Paolo, nel “Giornaletto di Saul” del 6 novembre 2012 ho apprezzato in particolare le riflessioni in versi di Teodoro Margarita, (http://www.circolovegetarianocalcata.it/2012/11/05/angeli-della-terra-custodi-del-seme-antico/) da cui emerge un’accurata conoscenza della Via degli Antenati. 

Anch’io vivo in campagna, osservo la danza delle stagioni, mi nutro di quello che coltivo, ma pure di erbe spontanee, e quindi sono molto sensibile al discorso dei semi.
Maria Adele Anselmo, in un suo studio interessante intitolato “La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Haland” (Pa 2011), conferma quanto sostenuto poeticamente da Margarita: i semi sono i morti che posti nel solco (l’utero) ritornano a nuova vita. 

I popoli arcaici, che si ispiravano al Mito dell’Origine eternamente attuale, interpretavano la vita e la morte quali aspetti inseparabili di un movimento che si ripete ininterrotto, pur senza mai ritornare all’identico. Tale concezione ciclica dell’esistenza si inabissò con l’emergere di una visione lineare, evolutiva, della vita: dal meno al più. Tuttavia essa non è del tutto sparita, giacché continua a vivere nella coscienza degli uomini che, non lasciandosi ingannare dai miraggi di una sedicente civiltà in preda all’illusione di un progresso od evoluzione illimitati, non si allontanano dai valori immutabili della Terra e del Cielo. Tra il 200 e il 1200 d.C. Tiruvalluvar, poeta del Tamil Nadu, scrisse: “Per quanto faccia, il mondo finisce sempre col tornare all’aratro perché l’agricoltura, benché faticosa, è la cosa essenziale” (“Tirukkural”, 1031).

Presso la Tradizione del Sanatana-dharma, la Via degli Avi, uno tra i due percorsi post mortem, vien detta Pitriyana; essa può essere riassunta nel modo che segue: il jiva (l’anima individuata) che sulla Terra abbia ottemperato al proprio dharma personale sale alla sfera della Luna, da dove, dopo aver beneficiato dei meriti accumulati, ritorna a questo mondo come pianta, animale o uomo. Si tratta di una Via che non disperde il jiva nella nescienza, ma nemmeno lo conduce alla Liberazione, poiché lo trattiene nell’ambito di nuovi stati di manifestazione individuati. 

Il mondo della Luna (Candraloka) segna la distinzione tra gli stati superiori dell’Essere (non individuati) e quelli inferiori (individuati). La sfera della Luna ineriva quelli che presso il mondo ellenico venivano considerati i Piccoli Misteri. I Grandi Misteri riguardavano la Via del Sole (Devayana). Di ciò ci parla Apuleio nella sua celebre opera “L’asino d’oro”, in cui compare tra l’altro un bellissimo Inno alla Dea.

Il mondo storico, succeduto a quello mitico, ha però frainteso e deformato tale sapienza tradizionale, interpretandola nel senso che la terra-natura-donna va rigettata e capillarmente sfruttata se ci si vuole aprire alle esigenze di una perfettibilità illimitata: dall’ameba, all’anfibio, alla scimmia, all’uomo, al titano... al niente. Nulla di più falso: soltanto se la Natura viene abbracciata, amata e compresa in quanto realtà inseparabile da noi stessi, essa ci permetterà di accedere agli stati sovraformali dell’Essere o, addirittura, al Risveglio nell’Ineffabile, da cui non c’è ricaduta cieca nella ruota del samsara.

Un’ultima osservazione sulle note autobiografiche (di Tullia Turazzi) relative all’incontro con Sathya Sai Baba (http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/2012/11/sathya-sai-baba-descritto-da-tullia.html).  Non entro nel merito dell’esperienza spirituale alla quale l’Autrice accenna (sicuramente valida ed autentica), ma mi limito a sottolineare l’uso improprio dei termini “turiya” e “nirvikalpa-samadhi”. Nella Mandukya Upanishad si dice a proposito del Brahman nirguna assimilato al Turiya: “Non è un’unità di coscienza poiché non è cosciente di cose separate, né non cosciente, non è percepibile con i sensi, è non agente, incomprensibile, indefinibile, impensabile... è pacificato, benefico, è non duale”. Perciò del Turiya non si può che parlare apofaticamente, cioè dicendo quello che non è. Anche la locuzione nirvikalpa-samadhi rimanda ad uno “stato” (termine improprio usato solo per comodità d’esposizione) innato, privo di differenziazione, dal quale non si entra e non si esce, giacché non vi è dualità. Nel caso descritto dall’Autrice – evidentemente sostanziato di dualità – sarà dunque più corretto parlare di savikalpa-samadhi o sabija-samadhi: estasi con seme o con oggetto, da cui si ritorna nello stato condizionato. 

Parlando di cose indiane, una certa precisione nell’uso dei termini sarebbe secondo me auspicabile. Diversamente si corre il rischio di rendere poco attendibile un discorso per altri versi valido.

In proposito val forse la pena ricordare il caso degli Hare Krishna occidentali (da te citati pochi giorni or sono), presso i quali l’approssimazione lessicale (sanscrita) e dottrinale contribuì parecchio ad affrettarne la decadenza. Altro fattore che ne promosse il declino fu l’intolleranza, espressione di una rigidità e di una ristrettezza mentale che viola uno dei capisaldi della forma mentis dell’India tradizionale: l’onnicomprensività.

Per quanto concerne quest’ultima qualità, antitetica alla pretesa di erigere roghi, nello “Shiva-Kosha” di S. K. Ramachandra Rao (Delhi 2008) si legge: “Although the Kalamukhas were fervent Shaivas, they were not fanatical. They not only tolerated, but actively encouraged, other faiths and sects. They supported the learning of the four Vedas, and were themselves Vaidika in general inclination. They also imparted in their schools instruction in such varied disciplines like Nyaya, Samkhya, Buddhism, Mimamsa and Yoga. One of the Kalamukha teachers, Someshvara, who administered the Nagareshvara temple and college at Sudi, is described in an inscription of 1075 A.D., as a Buddha to the Buddhist, a Jina to the Jains, an Akshapada (Gotama) to the Naiyayika, a Kanada to the Vaisheshika, a Jaimini to the Mimamsaka and a Brihaspati to the grammarian”.

Se ne evince un’enorme disponibilità a confrontarsi con la complessità delle interpretazioni dottrinali e con l’indefinita varietà delle forme. E dire che noi occidentali siamo andati in giro per il mondo per centinaia d’anni – e ancora lo stiamo facendo – ad esportare una civiltà che, nella pretesa di essere unica o, quanto meno, a tutte superiore, ha puntualmente lasciato dietro di sé una scia di distruzione, desolazione e morte. Se è vero l’insegnamento secondo cui bisogna valutare dai frutti, che cosa ne dobbiamo dedurre? Probabilmente che dobbiamo tornare ad imparare i principi elementari della saggezza: l’Essere che anima questo individuo o che ispira questa lingua è lo stesso che anima la foglia, l’insetto, la stella e che suscita tutte le altre lingue. A livello formale vige la diversità ed una relativa gerarchia, dal punto di vista dell’Essenza, invece, Tutto è Uno.

Scusa se anche questa volta ho abusato della tua pazienza, dilungandomi parecchio. 

Un caro saluto,
Subramanyam


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Mia rispostina: "Caro Subramanyam, ti sei dilungato a proposito e con ragioni più che valide ed interessanti.
Ho notato anch'io la discrepanza, riferita al samadhi, relativamente all'esperienza di Tullia. E come da te suggerito il nome savikalpa samadhi  sembra più indicato a qualificare lo stato descritto. Penso che  Tullia sia una persona che essenzialmente segue la via devozionale, probabilmente non ha mai approfondito le sottigliezze lessicali relative agli stati di coscienza dello yoga. Secondo me lei intendeva descrivere una condizione di totale assorbimento indotta dalla  presenza del suo guru... ed in questo -essendo la sua mente completamente immersa in lui (nell'esperienza di "laya")- ha ritenuto chiamarlo nirvikalpa samadhi. Magari dal suo punto di vista è anche giusto quel che dice.... Le descrizioni dei vari tipi di samadhi, in fondo, riguardano solo l'analisi mentale retrospettiva.  

D'altronde anche nel nirvikalpa samadhi c'è un'entrata ed un'uscita ed è unicamente  nel sahaja samadhi  (il samadhi ininterrotto e spontaneo) che  le distinzioni non hanno più alcun significato.

Ti ringrazio ancora per le tue acute osservazioni e per il contributo all'approfondimento che apprezzo grandemente." (Paolo D'Arpini)

1 commento:

  1. mah, apprezzo la ricerca di esperienze spirituale di elevare se stessi ma non è nella mia abitudine cercale lontane in altri luoghi, culture e persone che non conosco
    Semmai l'armonia, la bellezza la felicità e le esperienze radiose cerco di trovarle anche quando dormo in tutti i miei sogni

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