lunedì 2 maggio 2011

Rapporto uomo/animali ed alimentazione umana - Relazione di Caterina Regazzi per l'apertura della Festa dei Precursori - Treia 7 maggio 2011



Il mio intervento si basa sulla mia esperienza di lavoro nel servizio veterinario di una usl del nord Italia e dalle conoscenze, seppur limitate, che questa esperienza mi ha dato sulla produzione degli alimenti di origine animale.
Per i vegetariani o vegani presenti: non me ne vogliano per quello di cui sto per parlare. Viviamo in questa realtà è bene conoscerla e lavorare per migliorare la situazione. Personalmente mi considero una non vegetariana che mangia pochissima carne, ma non penso e non ho mai pensato come invece ritiene Paolo che l'uomo sia un frugivoro. Se l'uomo, sin dai tempi più antichi ha consumato carne, prima degli animali cacciati, poi di quelli allevati, evidentemente, per me, è nella sua natura. Che i consumi di carne e di prodotti di origine animale abbiano avuto un'impennata in tempi recenti senza motivazioni nutrizionali, ma socio-economiche, è pure evidente. Ora si tratta secondo me, di ritrovare un equilibrio.

Il mio lavoro consiste nell'effettuare controlli sulla produzione degli alimenti di origine animale (la cosiddetta sicurezza alimentare) a partire dalla stalla, compreso il controllo del benessere degli animali allevati.

Premetto che personalmente mi sento molto poco un precursore. In questo mondo in cui vivo, in cui viviamo, si sono fatti tanti progressi da tanti punti di vista, ma secondo altri aspetti mi pare che siamo andati molto al di fuori delle possibilità di vivere in armonia con la natura e con gli altri esseri viventi, umani compresi. Essere un precursore, in questo ambito, secondo me, vuol dire avere la consapevolezza di quello che c'è dietro all'alimentazione a base di alimenti di origine animale e quindi ridurne il loro consumo. E' quello che cerco di fare, avendone la consapevolezza giorno per giorno.
Non vivendo a Treia conosco poco la situazione della zootecnia nelle Marche mentre conosco abbastanza bene quella dell'Emilia Romagna. Ma in un'epoca come la nostra dobbiamo considerare tutto come interconnesso. Animali che nascono in Francia, vengono allevati e macellati in Italia e una parte del ricavato viene riesportato, ad esempio, fino in Africa.

Intanto l'alimentazione umana in Emilia Romagna è molto basata su alimenti di origine animale, anche per motivi di tradizione, infatti saprete che prodotti come il Parmigiano Reggiano e il Prosciutto di Parma sono tra i prodotti più conosciuti di questa regione, esportati in tutto il mondo.

Questa realtà così semplice, apparentemente, e cioè la produzione di due cibi comuni su molte delle nostre tavole, sottintende implicazioni etiche ed ecologiche veramente, secondo me, molto complesse.

Le ripercussioni ecologiche dell'allevamento intensivo e della produzione di alimenti di origine animale sono ormai evidenti. L'allevamento intensivo consuma risorse: materie prime per l'alimentazione animale come i cereali e soia, acqua, energia elettrica, e c'è una massiccia produzione di reflui. Il letame è una ricchezza, se viene prodotto in un'azienda con un terreno commisurato al numero di animali allevati. Il metano prodotto dagli allevamenti intensivi sembra responsabile di un'elevata percentuale dell'effetto serra. Inoltre negli stabilimenti destinati alla lavorazione degli alimenti di origine animale (macelli, salumifici, caseifici e altri) si svolgono attività altamente inquinanti, visto il massiccio uso di detergenti, disinfettanti, plastiche e produzione di rifiuti e necessitano per l'attività di grandi quantità di risorse energetiche e acqua.
Dietro all'allevamento di milioni di animali negli allevamenti intensivi ci sono dei risvolti che riguardano anche la morale sotto diversi aspetti: è giusto, quando ci sono milioni di persone che muoiono di fame, utilizzare la maggior parte dei cereali (mais e orzo prevalentemente) che vengono prodotti nel mondo, per l'alimentazione del bestiame? Per produrre 1 chilo di carne ci vogliono 9 chili di cereali. I terreni che sono utilizzati per la produzione di cereali sono terreni sottratti alla coltivazione di alimenti per l'uomo. Le monoculture di cereali a lungo andare impoveriscono i terreni rendendo necessario l'uso di massicce dosi di concimi di sintesi. La produzione di mangimi necessita movimenti mondiali di materie prime, con grosse speculazioni dietro. Immagino navi cariche di mais e di soia (OGM, perché ormai, quasi tutta la soia utilizzata è geneticamente modificata) solcare l'oceano. Penso anche al lavoro degli agricoltori che ci sta dietro e al lavoro da parte degli allevatori.

Quando l'allevamento non era intensivo, cioè quando l'allevamento era commisurato al terreno su cui insisteva, c'era un'armonia ed un reciproco arricchimento, tra l'agricoltura e l'allevamento. Gli animali davano i loro prodotti (latte, carne, uova, lana, setole, etc.) niente veniva sprecato ma uno dei prodotti più importanti era il letame, non esisteva azienda agricola senza animali, in ogni azienda agricola c'era una stalla, non esistevano i concimi chimici. Fino a qualche decina di anni fa il letame era l'unico concime in grado di restituire al campo il suo giusto nutrimento.

Gli animali lattiferi almeno in alcune regioni d'Italia, venivano lasciati pascolare liberamente, tutt'al più quando rientravano la sera in stalla veniva dato loro un piccolo premio in forma di farina, e anche pascolando, concimavano il terreno.
I suini e il pollame venivano allevati in maniera familiare con gli scarti di cucina e qualche pannocchia di granturco, così non si buttava via niente e non c'era la produzione di rifiuti che c'è oggi.

E' vero che abbiamo fatto progressi con la raccolta differenziata, ma l'"organico" è sempre un rifiuto e come tale deve essere trasportato, lavorato, immagazzinato, smaltito e non c'è un utilizzo diretto come avveniva una volta. A me sembra che si parli tanto di progresso. ma come dice un certo detto, il progresso a volte richiede di fare qualche passo indietro.

Gli allevamenti intensivi, che sono nati a partire dagli anni '60, per soddisfare la richiesta sempre maggiore da parte del mercato di prodotti di origine animale, ha comportato la necessità di utilizzare pratiche sempre più distanti da una naturalità di vita degli animali e così, gli animali devono vivere una vita sul cemento, trasportati su autotreni per lunghe distanze, in densità eccessive (ma regolari per legge), alimentati con prodotti sempre più concentrati, per permettere le performance produttive stimolate dalla selezione genetica.

Questo fatto ha conseguenze negative molto importanti sulla salute degli animali stessi. Una bovina lattifera allevata per la produzione di Parmigiano Reggiano ha una vita media di 3 parti in 5 anni di vita, dopo di che o per problemi ginecologici, podali, digestivi o mammari, deve essere scartata e sostituita. Una volta una bovina da latte, superava tranquillamente i 10 anni di età. Per contrastare o prevenire le forme morbose dovute all'eccessiva densità degli animali e l'eccessivo sfruttamento che abbassa le difese immunitarie si fa un uso sempre più massiccio di antibiotici.

Tutto questo è la norma senza considerare la possibilità dell'uso illecito di sostanze proibite. Per quella che è la mia esperienza personale, l'allevatore è normalmente un produttore corretto, ma è il sistema stesso che obbliga a fare uso di molecole di sintesi e a tenere gli animali in condizioni di scarso benessere. Il latte ed altri prodotti di origine animale costano alla produzione, circa come costavano 20 anni fa, mentre quasi tutto il resto, compresa la manodopera, costa molto di più.

Allora: ha un senso produrre tanto di più per guadagnare lo stesso? Più lavoro, più fatica, più consumo di risorse, più consumismo, più sprechi, più stress, più inquinamento........

Poi c'è l'altro aspetto morale della questione: quando mangiamo, teniamo in considerazione che gli animali non vengono allevati in condizioni naturali? La nostra alimentazione può essere basata sulla sofferenza di milioni di animali? E' vero che la percezione della sofferenza negli animali è ben lontana dalla nostra, non dobbiamo antropomorfizzare l'animale d'allevamento, ma se possiamo non parlare di vera e propria sofferenza, almeno dobbiamo considerare la vita dell'animale in un allevamento intensivo come lontana dalla natura.
In conclusione, pur non essendo vegetariana, auspico una riduzione del consumo di questi alimenti per un miglior benessere del nostro pianeta e per ristabilire un più corretto rapporto tra noi e gli animali. Bisogna ritornare ad un tipo di allevamento più in armonia con l'ambiente.

“Da aperta che era un tempo, l’umanità si è sempre più rinchiusa in sé stessa. Tale antropocentrismo non riesce più a vedere, al di fuori dell’uomo, altro che oggetti. La natura nel suo complesso ne risulta sminuita. Un tempo, in lei tutto era un segno, la natura stessa aveva un significato che ognuno nel suo intimo percepiva. Avendolo perso, l’uomo di oggi la distrugge e con ciò si condanna” (Claude Lévi-Strauss).


Caterina Regazzi

Referente per il rapporto Uomo/Animali
Rete Bioregionale Italiana

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